Gli lanciai un'occhiata per capire se mi stava seguendo. Sì, mi stava seguendo, e mi teneva puntati addosso due fanali più azzurri della fiamma di un bruciatore a gas.
«Tutto questo per dire che ogni sega lascia su un materiale come le ossa una firma riconoscibile. Per esempio solchi di varie ampiezze che presentano tracce particolari su fondo e pareti.»
«Se ho capito bene, lei mi sta dicendo che analizzando un osso è possibile risalire alla sega con cui è stato tagliato?»
«No. Le sto dicendo che è possibile stabilire il tipo di sega che, con più probabilità, ha lasciato quei segni.»
Gli servì qualche secondo per digerire la mia affermazione. «E lei da cosa ha capito che in questo caso si tratta di una sega manuale?»
«Non essendo azionate a mano, le seghe elettriche tendono a lasciare segni più uniformi. Le graffiature nei tagli, o meglio le strie, hanno un andamento più omogeneo, e così pure la direzione del taglio, nel senso che, diversamente da quanto accade con le seghe manuali, si verificano meno cambiamenti di direzione.» Feci una breve pausa per riordinare le idee. «Inoltre, poiché non richiedono un grande sforzo muscolare succede spesso che chi le maneggia produca parecchi pseudoinizi, in genere piuttosto profondi. E dato che sono più pesanti, e che talvolta chi le manovra spinge sull'estremità da tagliare, producono spuntoni da spezzamento più grossi.»
«E se una sega manuale viene usata da un individuo molto forte?»
«Ottima domanda. La forza e l'abilità personali sono fattori importanti. È vero, però, che spesso le seghe elettriche lasciano dei graffi all'inizio del taglio perché la lama tocca il materiale mentre è già in movimento.» Mi interruppi di nuovo, e Ryan aspettò in silenzio che riprendessi la mia spiegazione. «Inoltre, le scheggiature all'uscita sono più marcate e sulla superficie del taglio la maggior potenza delle seghe elettriche può manifestarsi come una sorta di lucentezza.»
A quel punto dovetti riprendere fiato e Ryan mi concesse qualche secondo prima di sollecitarmi con un'altra domanda.
«Che cos'è uno pseudoinizio?»
«Il primo contatto della lama con l'osso incide un solco, detto anche intaccatura, i cui angoli si trovano sulla superficie d'urto iniziale. Via via che la sega penetra nell'osso, gli angoli iniziali diventano pareti e si forma il fondo dell'intaccatura, come succede appunto nei solchi a U. Se però la lama salta fuori dal solco già segnato, o se viene ritirata senza che il taglio dell'osso sia completo, l'intaccatura che rimane viene detta pseudoinizio. Da uno pseudoinizio è già possibile ricavare tutte le informazioni necessarie, perché la sua ampiezza è determinata dalla larghezza della lama e dall'inclinazione dei denti. La sua sezione trasversale ha inoltre una forma particolare e rivela l'eventuale presenza di segni distintivi.»
«E se la sega taglia l'osso senza produrre pseudoinizi?»
«Se il taglio prosegue fino alla separazione definitiva, il fondo dell'intaccatura può essere ancora visibile in uno degli spuntoni di spezzamento, cioè in una di quelle schegge appuntite presenti sul margine dell'osso nel punto in cui si spezza. Inoltre, è sempre possibile trovare sulla superficie di taglio dei segni impressi da singoli denti.»
Ripresi il radio di Isabelle Gagnon, cercai uno pseudoinizio parziale su uno degli spuntoni e posizionai opportunamente la luce della fibra ottica.
«Ecco, guardi questo.»
Avvicinò la faccia al microscopio e cominciò a guardare nell'oculare, regolando la manopola della messa a fuoco.
«Sì, lo vedo.»
«Osservi il fondo dell'intaccatura. Che cosa nota?»
«Si direbbe che è coperto di grumi.»
«Appunto. Quei grumi sono isole di tessuto osseo, e la loro presenza rivela che i denti erano disposti ad angoli alternati rispetto alla lama della sega. Questo tipo di disposizione dà luogo a un fenomeno noto come deriva della lama.»
Sollevò la testa dal microscopio e mi guardò inespressivo. L'oculare gli aveva impresso due segni simili a quelli di un paio di occhialini da piscina troppo stretti.
«Quando il primo dente penetra nell'osso cerca di allinearsi con il piano della lama, cerca cioè la linea mediana, e la lama tende a seguire questo movimento. Il dente successivo cercherà di comportarsi allo stesso modo, ma, poiché è inclinato nella direzione opposta, obbligherà la lama a cambiare inclinazione. Dato che questo succede per tutti i denti, le forze che agiscono sulla lama cambiano continuamente, inducendo la lama stessa a compiere piccoli spostamenti all'interno dell'intaccatura. Maggiore è l'inclinazione dei denti e maggiore sarà lo spostamento forzato della lama. Quando l'inclinazione è molto ampia, gli spostamenti sono tali da lasciare del materiale lungo la linea mediana dell'intaccatura che va a formare. Appunto, le isole di tessuto osseo. In altre parole, i grumi che lei ha visto.»
«Quindi significa che i denti erano inclinati?»
«Veramente queste isole dicono molto di più. Dato che il cambiamento di direzione di ogni dente è provocato dall'inserimento del dente successivo, la distanza fra questi cambiamenti di direzione equivale alla distanza fra i denti. E poiché le isole rappresentano i punti in cui la deriva della lama è maggiore, anche la distanza fra le isole equivale alla distanza fra due denti. Aspetti che le mostro ancora qualcosa.»
Tolsi il radio dal microscopio e inserii l'ulna, illuminando la superficie del taglio che aveva reciso la mano. Poi mi allontanai.
«Riesce a vedere quelle linee ondulate?»
«Sì. Assomigliano a un'asse per il bucato, solo che sono curve.»
«Bene. Quelle linee sono chiamate "armonici". La deriva della lama lascia quei picchi e quegli avvallamenti sulle pareti del taglio proprio come lascia le isole di tessuto osseo sul fondo. I picchi e le isole corrispondono ai punti di maggior ampiezza dello spostamento, mentre gli avvallamenti e i restringimenti del fondo corrispondono ai punti dello spostamento in cui la lama è più vicina alla linea mediana.»
«Quindi, come accade per le isole, è possibile misurare anche picchi e avvallamenti?»
«Esatto.»
«E come mai nella parte inferiore dell'intaccatura non vedo niente di tutto ciò?»
«Perché la deriva della lama si verifica prevalentemente all'inizio o alla fine di un taglio, quando cioè la lama è più libera di spostarsi in quanto non è trattenuta dall'osso.»
«Sì, mi sembra che abbia senso.» Alzò lo sguardo. Gli occhialini erano sempre lì.
«E che cosa mi dice della direzione?»
«Del colpo o dell'affondamento?»
«Quale sarebbe la differenza?»
«La direzione del colpo dipende dal momento in cui effettivamente avviene il taglio, cioè se avviene quando si spinge o quando si tira. Quasi tutte le seghe occidentali tagliano sulla spinta. Alcune seghe giapponesi, invece, tagliano nella fase opposta. Altre ancora in entrambe. La direzione dell'affondamento è la direzione in cui la lama si muove all'interno dell'osso.»
«E lei è in grado di stabilire tutto questo?»
«Sì.»
«Insomma, per farla breve che cosa ha scoperto?» mi domandò, guardandomi e insieme stropicciandosi gli occhi.
Andai a prendere il mio blocco degli appunti e approfittai della breve pausa per massaggiarmi un po' la schiena. Dopodiché scorsi rapidamente le pagine concentrandomi sui dati più significativi.
«Sulle ossa di Isabelle Gagnon ho individuato un certo numero di pseudoinizi. Le intaccature sono larghe circa un millimetro e venticinque, e quasi sempre presentano alcune depressioni del fondo. Ho rilevato inoltre gli armonici e le isole di tessuto osseo, entrambi misurabili.» Voltai pagina. «Tracce di scheggiatura all'uscita.»
Aspettò che continuassi. Vedendo che esitavo, mi domandò: «E per essere più concreti?»
«Ritengo che si tratti di una sega manuale con denti alternati, probabilmente passo 2,5.»
«Passo 2,5?»
«Sì. Il numero indica che la distanza fra i denti è di 2,5 millimetri. Inoltre sono denti a scalpello. La sega taglia sulla spinta.»
«Capisco.»
«La deriva della lama è molto ampia e la scheggiatura all'uscita consistente. La lama sembra tagliare a mo' di scalpello. Penso che potrebbe trattarsi di una sorta di grande seghetto per metallo. Le isole indicano che l'inclinazione dei denti è decisamente pronunciata, per evitare che la sega grippi.»
«E quindi quali sono le sue conclusioni?»
Sebbene fossi piuttosto sicura di aver capito con quale strumento erano stati prodotti quei tagli, non era ancora il momento di esternare le mie convinzioni.
«Le potrò dare una risposta definitiva dopo che avrò consultato una persona.»
«Ha trovato altro?»
Tornai alla prima pagina del blocco e cercai di riassumere le informazioni che avevo ricavato.
«Gli pseudoinizi sono sulle superfici anteriori delle ossa lunghe. Gli spuntoni, se presenti, si trovano sui lati posteriori. Questo significa che il corpo, quando è stato smembrato, probabilmente era girato sulla schiena. Le braccia sono state staccate all'altezza delle spalle e le mani mozzate, le gambe disarticolate dalle anche e il ginocchio danneggiato internamente. La testa è stata tagliata in corrispondenza della quinta vertebra cervicale, il torace aperto in tutta la lunghezza con un taglio profondo fino alla colonna vertebrale per tutta la lunghezza.»
Scosse la testa. «Un autentico virtuoso, l'amico.»
«Ma la situazione è ancora più complessa.»
«Che cosa intende dire?»
«Intendo dire che è stato utilizzato anche un coltello.» Risistemai l'ulna sul microscopio e regolai la messa a fuoco. «Dia un'altra occhiata qui.»
Mentre si piegava sul microscopio non potei fare a meno di notare le sue natiche sode e muscolose. Gesù, Brennan, a che punto...
«Non è necessario che prema il viso così forte contro l'oculare.»
Cercò di rilassare le spalle e bilanciò meglio il peso del corpo.
«Riconosce le intaccature di cui abbiamo parlato finora?»
«Sì.»
«Adesso guardi verso sinistra. Vede quel taglio sottile?»
Rimase in silenzio per un istante, agendo sulla manopola di regolazione. «Si direbbe più un cuneo. Le pareti non sono perpendicolari ed è più stretto degli altri.»
«Appunto. Quello è un taglio lasciato da un coltello.»
Si allontanò dal microscopio. Occhialini.
«Quello che ho notato è che questi tagli seguono un percorso preciso. Molti sono paralleli agli pseudoinizi prodotti dalla sega e alcuni li intersecano addirittura. Inoltre, sono gli unici visibili sull'articolazione dell'anca e sulle vertebre.»
«Quindi?»
«Se certi segni di coltello si sovrappongono a quelli della sega e altri passano al di sotto, è molto probabile che il coltello sia stato utilizzato prima e dopo la sega. Penso che l'assassino abbia tagliato le carni con il coltello, separato parzialmente le articolazioni con la sega e riutilizzato il coltello per recidere i muscoli o i tendini che ancora legavano le ossa. Se si escludono le mani, che sono state segate sopra i polsi, è intervenuto sempre sulle articolazioni.»
Ryan annuì.
«Le vertebre invece non presentano segni indicativi dell'uso di una sega. In poche parole, Isabelle Gagnon è stata decapitata e sventrata con il solo coltello.»
Restammo in silenzio per qualche istante riflettendo su quell'ultimo particolare. Prima di assestare il colpo definitivo volevo essere sicura che avesse metabolizzato tutto a dovere.
«Ho esaminato anche il caso Trottier.»
I due fanali azzurri incrociarono il mio sguardo. Il volto già scarno sembrava ancora più teso, mentre si preparava a incassare quanto stavo per dirgli.
«Tutti i particolari coincidono. Identici.»
Deglutì, tirando un profondo respiro. «Questo deve avere benzina al posto del sangue», commentò quasi in un sussurro.
A quel punto si allontanò dal banco, e nello stesso momento un addetto alle pulizie fece capolino dalla porta. Quando ci voltammo a guardarlo si defilò veloce come una lucertola, forse spaventato dalle nostre espressioni cupe. Ryan contrasse la mascella e tornammo a fissarci negli occhi.
«Porti i risultati delle sue ricerche a Claudel. Mi sembra che questa roba possa bastare.»
«Prima mi lasci verificare ancora un paio di cose. Poi farò una visita a monsieur Simpatia.»
Se ne andò senza salutare. Io misi via le ossa, lasciai le scatole sul tavolo e uscii chiudendo a chiave il laboratorio. Passando davanti alla reception lanciai uno sguardo all'orologio sopra gli ascensori: le sei e mezzo. Fuori la sera cominciava a punteggiarsi di luci. Ancora una volta ero riuscita a trattenermi in ufficio fino all'arrivo del personale delle pulizie. Sapevo che ormai era tardi, ma tentai ugualmente di prestare fede ai miei impegni.
Percorsi il corridoio del mio ufficio fino all'ultima porta sulla destra. Una piccola targa recava il nome di Lucie Dumont, preceduto dalla scritta INFORMATICA.
Dopo una lunga attesa e molte difficoltà, finalmente l'LML e l'LSJ erano in rete. Il processo di informatizzazione era stato ultimato nell'autunno del 1993 e da quel momento i dati erano stati immessi nel sistema con puntuale regolarità. La precedenza era stata comunque accordata ai casi più recenti, ormai elaboratali via computer poiché i rapporti di tutte le divisioni erano stati organizzati in file-master. Il database dei casi meno recenti, invece, era ancora in fase di aggiornamento. Il DEJ aveva fatto la sua entrata trionfale nell'era del computer e l'artefice di questo miracolo rispondeva al nome di Lucie Dumont.
La porta era chiusa. Bussai, ma sapevo già che non avrei ottenuto risposta. A quell'ora Lucie era sicuramente già uscita.
Mi restava un'ultima cosa da fare. Tornai in ufficio, e presi l'elenco dei membri dell'American Academy of Forensic Sciences, l'Accademia americana di scienze forensi. Una volta recuperato il nome della persona con cui volevo parlare, lanciai un'occhiata all'orologio e feci un rapido calcolo. Da lui dovevano essere le quattro e quaranta. O forse le cinque e quaranta? Non ricordavo se l'Oklahoma rientrava nel fuso orario occidentale o in quello centrale.
«Al diavolo», mi dissi infine, sollevando la cornetta. Mi rispose una voce amichevole a cui chiesi di essere messa in comunicazione con Aaron Calvert. La voce mi informò che stavo parlando con il servizio notturno ma che potevo lasciare un messaggio. Lasciai nome e numero di telefono e riattaccai, continuando a ignorare in quale fuso orario si trovasse la città che avevo chiamato.
Le cose non procedevano per il verso giusto. Mi sedetti un momento, pentita di non essermi data una mossa un po' prima. Quindi, in un ultimo slancio di energia, feci il numero di Gabby. Una volta di più, non ottenni risposta. E non trovai neppure la segreteria telefonica. La cercai all'università, ma dopo quattro squilli partì un messaggio registrato. Stavo per attaccare, quando l'ufficio di facoltà intercettò la mia chiamata. Venni così a sapere che nessuno l'aveva vista, che non ritirava la posta da alcuni giorni, ma che tutto ciò era normale vista la stagione estiva. Ringraziai e agganciai.
«Centro numero tre», dissi a voce alta. Niente Lucie. Niente Aaron. Niente Gabby. Gesù, Gabby dove sei?
Decisa a non pensarci, misi la borsa a tracolla e spensi la luce. La partita con Claudel era appena cominciata.
14
Uscita dall'ufficio mi fermai da Kojax per un souvlaki da asporto, quindi puntai verso casa. Meditavo progetti alquanto elettrizzanti per la serata.
Birdie mi accolse con un saluto da martire. Ignorandolo, tirai fuori una Diet Coke e la misi sul tavolo insieme al sacchetto della cena. Poi lanciai un'occhiata alla segreteria telefonica, che mi restituì lo sguardo, immobile e silenziosa. Gabby non aveva chiamato. L'ansia si stava impadronendo di me.
Andai in camera da letto e rovistai nel comodino. Quello che cercavo era sepolto nel terzo cassetto: una cartina di Montréal. La portai in cucina e la stesi sul tavolo, quindi aprii la Coca e il sacchetto del souvlaki. La vista del riso unto e della carne stracotta indusse il mio stomaco a una subitanea ritirata, costringendomi a ripiegare su una semplice fetta di pita.
Osservando sulla cartina il piede ormai familiare, partii dalla via dove abitavo e tracciai un percorso che attraversava Centre-Ville, proseguiva oltre il fiume fino alla riva meridionale e approdava al quartiere che cercavo. Dopodiché piegai la cartina lasciando bene in vista i sobborghi di Saint-Lambert e Longueil e azzardai un altro tentativo con il souvlaki. Il mio stomaco reiterò il rifiuto, chiarendo una volta per tutte che non avrebbe tollerato altre sollecitazioni.
Nel frattempo Birdie si era silenziosamente appostato a un palmo dalla mia coscia. «Tieni, te lo regalo», lo allettai, facendo scivolare il contenitore di alluminio verso di lui. Lo vidi esitare un istante, ancora incredulo, quindi puntare deciso verso quel tesoro producendosi in fusa rumorose.
Da un armadio dell'ingresso presi una torcia, un paio di guanti da giardino e uno spray contro gli insetti e buttai tutto in uno zainetto insieme alla cartina, a un supporto rigido e a un blocco. Poi mi cambiai, optando per una maglietta, un paio di jeans e scarpe da ginnastica, e mi legai con cura i capelli. Ripensando al contenuto dello zaino aggiunsi una camicia di jeans a maniche lunghe, quindi scrissi su un biglietto: «Andata a verificare la terza X... Saint-Lambert». Guardai l'orologio: le otto meno un quarto. Aggiunsi data e ora e lasciai il foglio sul tavolo della sala da pranzo. Probabilmente era inutile, ma nel caso mi fossi cacciata nei guai almeno avevo lasciato una traccia.
Mi buttai lo zainetto in spalla e digitai il codice di inserimento dell'impianto antifurto, ma nell'agitazione composi un numero sbagliato e dovetti ricominciare da capo. Al secondo tentativo fallito mi fermai, chiusi gli occhi e recitai a memoria le parole di una filastrocca su re Artù. Dovevo sgombrare la mente con un semplice esercizio di ripetizione, era un trucchetto che avevo imparato all'università. L'intermezzo nel regno di Camelot mi aiutò effettivamente a recuperare la calma, digitai il codice senza errori e lasciai l'appartamento.
Uscita dal garage feci il giro dell'isolato e imboccai la Sainte-Catherine in direzione est, verso De la Montagne, quindi svoltai a sud, diretta al Victoria, uno dei tre ponti che collegano l'isola di Montréal alla riva meridionale del San Lorenzo. Dopo essersi rincorse per tutto il pomeriggio, le nuvole si stavano ammassando scure e minacciose all'orizzonte e si riflettevano nelle acque plumbee e ostili del fiume.
Alla mia sinistra indovinavo l'Île Notre-Dame e l'Île Sainte-Hélène, sovrastate dall'arco del Pont Jacques-Cartier e avvolte dalla crescente oscurità. Cercai di immaginarmele durante l'Expo del '67, pulsanti di vita e brulicanti di persone, così diverse da come mi apparivano in quel momento, indolenti e silenziose, simili ai resti di un'antica civiltà.
Sulla destra avevo l'Île des Soeurs, l'isola delle suore. Un tempo proprietà della Chiesa, era ormai diventata un ghetto per yuppies, una cittadella di condomini, piscine, campi da golf e da tennis collegata al resto della città dal Pont Champlain. Le luci dei suoi grattacieli scintillavano nella sera intrecciando una segreta sfida con i bagliori dei fulmini in lontananza.
Raggiunta la riva meridionale, imboccai il Boulevard Sir Wilfred Laurier. Il tempo di attraversare il fiume e il cielo si era fatto di un verde inquietante. Accostai per consultare nuovamente la cartina. Fissai la mia posizione prendendo come riferimento le macchie smeraldo di un parco e del campo da golf di Saint-Lambert, quindi appoggiai la cartina sul sedile del passeggero e ripartii. Mentre ingranavo la marcia un lampo squarciò la notte, e subito dopo i primi goccioloni spinti dal vento investirono il parabrezza.
Continuai a guidare nell'oscurità sinistra che accompagna l'inizio di ogni temporale, rallentando a tutti gli incroci per allungare il collo in cerca delle indicazioni stradali. Stavo seguendo il percorso messo a punto sulla cartina: svolta a sinistra, poi a destra, poi ancora due a sinistra...
Una decina di minuti più tardi mi fermai e parcheggiai la macchina. Il cuore mi batteva forte. Asciugandomi le mani sudate contro i jeans, lanciai un'occhiata intorno.
Il cielo si era fatto ancora più cupo e il buio era quasi totale. Lungo il tragitto avevo attraversato una serie di quartieri residenziali punteggiati di villette e solcati da viali alberati, ma in quel momento mi trovavo ai margini di una zona industriale abbandonata e segnalata sulla cartina da una piccola mezzaluna grigia. Ero decisamente sola.
Una fila di capannoni deserti si affacciava sul lato destro della strada, illuminata da un unico lampione funzionante. Quello più vicino spiccava in un chiarore innaturale, come su un set cinematografico, mentre gli altri sbiadivano progressivamente fino a scomparire del tutto nell'oscurità. Alcuni esibivano cartelli di messa in vendita o in affitto, altri non beneficiavano più neppure di queste possibilità, come se i loro proprietari si fossero definitivamente arresi. I vetri delle finestre erano rotti e i parcheggi deserti e coperti di immondizie, uno scenario che ricordava le vecchie immagini in bianco e nero di Londra durante la Battaglia d'Inghilterra.
A sinistra il panorama era altrettanto desolato. Buio pesto e il nulla. Non distinguevo altro. Quel luogo corrispondeva alla macchia verde priva di indicazioni dove Saint-Jacques aveva segnato la sua terza X. Avevo sperato di trovarmi davanti un cimitero o un piccolo parco.
Invece no, merda.
Strinsi le mani sul volante e fissai il buio.
E adesso?
Non avevo proprio tenuto conto di quella eventualità.
Per un istante la strada fu rischiarata dal bagliore di un fulmine. Qualcosa sbucò dalla notte sbattendo contro il parabrezza. Ebbi un sussulto e cacciai un urlo. La creatura rimase lì per un momento, strano tatuaggio in preda agli spasmi, poi volò via in groppa al vento che si alzava.
Calmati, Brennan. Fai un bel respiro profondo. In realtà il mio livello di agitazione era già arrivato alla ionosfera.
Indossai la camicia di jeans supplementare, infilai i guanti nella tasca posteriore dei pantaloni e misi la torcia nel marsupio. Blocco e penna rimasero nello zaino.
Tanto non avrai bisogno di prendere nessun appunto, mi rassicurai.
La sera odorava di pioggia e di cemento bagnato. Il vento tormentava i rifiuti lungo la strada, faceva mulinare foglie e cartacce, mi scompigliava i capelli e si infilava tra i vestiti facendo sventolare i bordi della maglietta come bucato steso sul filo. Infilai la maglia nei pantaloni e accesi la torcia. Mi tremava la mano.
Illuminando l'oscurità davanti a me attraversai la strada, salii sul marciapiede e mossi qualche passo su uno spiazzo erboso. Non mi ero sbagliata. Una recinzione di ferro arrugginito alta quasi due metri percorreva l'intero perimetro della proprietà. Oltre il bordo superiore sporgeva un intrico di alberi e di cespugli che si interrompeva bruscamente in corrispondenza della barriera metallica. Puntai la torcia sforzandomi di distinguere qualcosa attraverso il fogliame, ma non riuscii a valutare né l'estensione del bosco né cosa vi fosse oltre.
Mi avviai dunque lungo la recinzione, accogliendo nel cerchio di luce la danza di ombre dei rami agitati dal vento. Qualche goccia occasionale penetrava la massa verdeggiante bagnandomi il viso. Stava per scatenarsi un brutto temporale. Ero scossa da forti tremori, forse per l'improvviso abbassamento di temperatura, forse per l'ostilità di quel luogo, ma più probabilmente per entrambi i motivi. In quel momento il fatto di aver pensato all'insettifugo e non a una giacca pesante mi parve davvero idiota.
A circa tre quarti dell'isolato la sede stradale si abbassava bruscamente di livello, in corrispondenza di una viuzza secondaria o di servizio che conduceva a una radura. In quel punto la recinzione era interrotta da un cancello chiuso con una catena e un lucchetto a combinazione.
Il vialetto di ghiaia coperto di erbacce e la striscia di rifiuti che proseguiva ininterrotta davanti al cancello mi indussero a supporre che l'entrata non fosse utilizzata da un po' di tempo. Cercai di illuminare il varco ma riuscii a malapena a penetrare la tenebra: era come utilizzare un accendino per rischiarare la cupola di un planetario.
Proseguii quindi per un'altra cinquantina di metri, fino a raggiungere il fondo dell'isolato. Mi ci volle un secolo. Giunta all'angolo mi guardai intorno. La strada che stavo seguendo terminava in un incrocio a T. Sbirciando in quella direzione intravidi un'altra strada altrettanto buia e deserta.
Delimitava un isolato coperto di asfalto e recintato da una catena, forse il parcheggio di una fabbrica o di un magazzino. L'intero lotto era illuminato da un'unica lampadina precariamente appesa a un palo del telefono; schermata da un paralume di metallo, creava un cerchio di luce di circa sei metri. Il marciapiede era vuoto e cosparso di detriti. Intorno vidi solo qualche baracca e alcuni gabbiotti.
Mi fermai un attimo ad ascoltare. Vento, gocce di pioggia, tuoni in lontananza. Il mio cuore che batteva. La luce fioca del parcheggio non era sufficiente a nascondere il tremore delle mie mani.
Okay, Brennan, smettila con queste stronzate. Chi non risica non rosica.
«Bene.» La mia voce aveva un suono strano, ovattato, come se la notte ne avesse inghiottito le parole prima che potessero raggiungere le mie orecchie.
Tornai a voltarmi verso il recinto. Oltre l'angolo proseguiva con una brusca curva a sinistra, parallelo alla strada che avevo appena intersecato. Lo seguii. Dopo circa tre metri la cancellata si interrompeva, sostituita da un muro di pietra. Arretrai di qualche passo e lo illuminai con la torcia. Era un muro alto quasi due metri, grigiastro e sormontato da un bordo di pietre che sporgevano di una quindicina di centimetri. Nonostante il buio vidi che a circa metà dell'isolato aveva un'apertura e immaginai subito che si trattasse del lato frontale della proprietà.
Lo seguii per una cinquantina di metri, cercando di evitare una serie di cassonetti per la raccolta di carta, vetro e alluminio e una quantità di oggetti che non mi curai di identificare.
Quindi ritrovai la recinzione di ferro arrugginita e un cancello chiuso con catena e lucchetto, come il primo che avevo incontrato. Alzai il fascio di luce e gli anelli di metallo luccicarono. La catena era nuova. Provai a scuoterla con forza. Teneva. Riprovai, ma di nuovo non ottenni alcun risultato. Decisi allora di ispezionare le sbarre con la torcia.
Improvvisamente mi sentii afferrare una gamba. D'istinto mi chinai per toccarmi la caviglia e la torcia cadde a terra, mentre io già mi vedevo intrappolata fra gli artigli di un mostro dai denti gialli e dagli occhi di fuoco. Era un sacchetto di plastica.
«Merda!» imprecai con la gola secca, mentre cercavo di liberarmi la gamba con le mani sempre più tremanti. «Assalita da una busta di supermercato.»
Il mio aggressore fuggì rotolando nel vento e io cominciai a cercare la torcia che, nell'urto, si era spenta. Quando finalmente la recuperai fu solo per scoprire che non intendeva affatto riprendere a funzionare. Provai a sbatterla contro il palmo della mano ma la lampadina si accese solo per un istante e poi svanì. Un altro colpetto e riuscii a ottenere una luce debole e incerta. Mi aspettavo che si spegnesse da un momento all'altro.
Rimasi al buio per qualche secondo, riflettendo sul da farsi. Volevo realmente proseguire in quell'impresa? Che cosa diavolo speravo di dimostrare? Un bagno e a nanna sembrava decisamente una prospettiva migliore.
Chiusi gli occhi e mi concentrai sui rumori circostanti, cercando di distinguere un'eventuale presenza umana. In seguito, tutte le volte in cui ho ripensato a quella scena, mi sono domandata spesso se per caso non avessi udito qualcosa di particolare, dei pneumatici sulla ghiaia, un cardine che cigolava, un motore in lontananza. La risposta però è stata sempre la medesima: forse la precipitazione, forse il temporale imminente, io non avevo davvero sentito nulla.
Tirai un profondo sospiro, mi feci coraggio e sbirciai oltre il muro. Tempo addietro, durante la visita alla tomba di un faraone, nella Valle dei Re, improvvisamente era mancata la luce. Mi trovavo in uno spazio angusto e ricordo che avevo avuto l'impressione di essere inghiottita non già dalla semplice oscurità, ma dalla totale assenza di luce, come se il mondo intero si fosse spento. E lì, mentre tentavo di distinguere qualcosa nel buio oltre il muro, mi sembrò di riprovare la stessa sensazione. Ma dove si nascondevano i segreti più oscuri? Nella tomba del faraone o nel nulla che avevo di fronte?
Quella X indica qualcosa e quel qualcosa è qui. Coraggio, Brennan.
Tornai indietro fino al cancello laterale. Come potevo aprire quel lucchetto? Puntai la torcia sulle sbarre in cerca di una risposta, quando un fulmine rischiarò il cielo per un istante, saturando l'aria di ozono e procurandomi un leggero formicolio al cuoio capelluto e alle mani. Quel lampo di luce, tuttavia, fu sufficiente a farmi notare un'insegna sulla destra del cancello.
Il mio debole cono di luce rivelò una piccola targa di metallo inchiodata alle sbarre, dal messaggio piuttosto chiaro nonostante la ruggine: ENTRÉE INTERDITE. Ingresso vietato. In altre parole, alla larga. Mi avvicinai e cercai di leggere la scritta sottostante. Qualcosa de Montréal Sembrava la parola Arciduca. Arciduca di Montréal? Non sapevo ne esistesse uno.
Mi colpì un circoletto posto sotto quelle parole. Asportai delicatamente un po' di ruggine con le unghie e affiorò un emblema che ricordava un cimiero o una cotta d'armi vagamente familiari. D'un tratto capii. Arcidiocesi. Arcidiocesi di Montréal. Ma certo. Mi trovavo davanti a una proprietà della Chiesa, forse un convento abbandonato, o un monastero. Il Québec pullulava di luoghi simili.
Tranquilla, Brennan, tu sei cattolica. Qui devi sentirti al sicuro. Questa è anche la tua casa. Chissà da dove mi venivano quei luoghi comuni? Intanto le scariche di adrenalina si alternavano al tremore dell'inquietudine.
Cacciai la torcia nella tasca dei jeans e afferrai la catena con la mano destra e una sbarra di metallo arrugginito con la sinistra. Ero sul punto di dare uno strattone quando mi resi conto che era inutile: anello dopo anello, la catena stava scivolando fra le sbarre abbandonandosi sul mio polso come un serpente su un ramo. La avvolsi intorno alle mani e cercai di sfilarla del tutto, ma era bloccata. Guardai meglio e vidi che il lucchetto era rimasto incastrato fra le sbarre con il gancio aperto. Liberai il lucchetto, recuperai la catena e li osservai.
Nel frattempo il vento era calato sostituito da una quiete innaturale. Il rumore del silenzio mi rimbombava nelle orecchie.
Appoggiai la catena sul battente di destra e tirai quello di sinistra verso di me. In quell'assoluta assenza di rumori il cigolio dei cardini risuonò come un grido. Non si sentivano rane, né grilli, neppure il fischio lontano di un treno. Era come se l'intero universo stesse trattenendo il respiro in attesa del temporale.
Aprii il cancello ancora un po', entrai e lo richiusi. Ripresi la torcia e mi avviai lungo una strada spostando di continuo il fascio di luce dai miei piedi alle macchie di alberi sui lati. Sotto le scarpe la ghiaia scricchiolava leggermente. Percorsi una decina di metri, mi fermai e puntai la mia fonte luminosa verso l'alto. Sopra di me, un viluppo di rami immobili e sinistri si intrecciava in una volta impenetrabile.
Cercai di calmarmi recitando una filastrocca. Ero tesa come una corda di violino e avevo ripreso a tremare. Ti stai deconcentrando, Brennan. Pensa a Claudel. No. Pensa a Isabelle Gagnon e a Chantale Trottier e a Margaret Adkins.
Spostai il fascio di luce sulla destra, e mi soffermai su tutti gli alberi che fiancheggiavano la strada, stretti in una serie infinita di ranghi. Feci altrettanto sulla sinistra e, una decina di metri più avanti, credetti di scorgere una radura.
Illuminai quel punto e avanzai. Ben presto scoprii però che mi ero sbagliata e che anche lì gli alberi continuavano la loro marcia a ranghi serrati. Tuttavia il luogo appariva diverso, come violato. D'un tratto capii. Non erano stati gli alberi ad aver attirato la mia attenzione ma il sottobosco. In quel punto era formato da piante gracili che coprivano il terreno in modo rado e irregolare, dando l'impressione di appartenere a una radura da tempo riconquistata dal bosco.
Forse si trattava semplicemente di piante giovani. Un giro di torcia tutt'intorno mi rivelò che quella strana vegetazione si concentrava in una sottile striscia di terreno, un sorta di ruscello che scorreva fra gli alberi. O un sentiero. Decisi di seguirlo ma, il tempo di muovere qualche passo, e il temporale scoppiò.
Le prime rare gocce ben presto si trasformarono in un improvviso torrente d'acqua che fece ondeggiare gli alberi come aquiloni. A ogni lampo seguiva un tuono, in un botta e risposta incessante. Deviati dal vento impetuoso, gli scrosci d'acqua cadevano obliqui.
In un attimo mi ritrovai completamente zuppa. Rivoli d'acqua mi colavano lungo la fronte, velandomi la vista e irritando la ferita che avevo sulla guancia. Mi scostai i capelli dal viso e li portai dietro le orecchie, quindi cercai di ripararmi gli occhi con una mano e con un lembo della maglietta avvolsi la torcia per proteggerla dalla pioggia.
Curvai la schiena e proseguii lungo il sentiero ignorando qualsiasi cosa si trovasse al di fuori del cono di luce che mi precedeva e che facevo oscillare a destra e a sinistra per verificare i lati del sentiero. Mi sembrò di seguire un cane al guinzaglio che stava fiutando una pista.
Dopo una ventina di metri vidi qualcosa. Ripensandoci, posso dire che in quel preciso istante il mio cervello aveva associato quell'immagine a una precedente archiviata da poco. Il mio inconscio cioè aveva riconosciuto ciò che avevo visto prima ancora che la mia parte cosciente ne sviluppasse la rappresentazione mentale.
Torcia alla mano, continuai ad avanzare nel buio. Improvvisamente capii, e lo stomaco mi salì in gola.
Nel tremolio della luce fioca tra le foglie secche scorsi un sacco rnarrone per l'immondizia chiuso con un nodo; mi fece venire in mente un leone marino che affiora in superficie per respirare.
Osservai la pioggia cadere sul sacco e sul terreno circostante. L'acqua rosicchiava i margini della buca trasformando la terra in fango. A mano a mano che il sacco affiorava, lentamente ma inesorabilmente, sentivo le ginocchia indebolirsi sempre di più.
Il bagliore di un lampo mi strappò alle mie considerazioni. Con un balzo mi avvicinai e mi chinai per esaminarlo. Rinfilai la torcia nei jeans e lo afferrai dal nodo nel tentativo di estrarlo dal terreno. Non ci riuscii. Cercai allora di aprirlo ma la plastica bagnata era troppo scivolosa. Allora accostai il naso all'estremità sigillata e annusai. Fango e plastica. Nessun altro odore.
Lacerai leggermente il sacco con l'unghia del pollice e riprovai. Per quanto impercettibile, lo riconobbi. Era il fetore dolciastro della carne morta e delle ossa bagnate. Prima ancora di poter decidere se scappare a gambe levate o dare sfogo alla mia rabbia sentii un ramoscello spezzarsi e percepii un movimento. Non feci in tempo a balzare via che un fulmine mi scoccò nel cervello precipitandomi ancora una volta nella tomba del faraone.
15
Erano secoli che non mi sentivo così malconcia. E naturalmente non ricordavo nulla. Sapevo solo che al minimo movimento un dolore atroce mi trafiggeva il cervello e che, se avessi aperto gli occhi, di sicuro avrei vomitato. Non mi sembrava di avere scelta: ero costretta a rimanere immobile. Ma avevo freddo, il gelo mi stringeva in una morsa ed era ormai penetrato fino alle ossa. Dovevo alzarmi. Cominciai a tremare convulsamente. Avevo bisogno di un'altra coperta.
Mi misi a sedere, le palpebre sigillate. I dolori alla testa erano così forti che mi provocarono un conato di vomito. Piegai il capo sulle ginocchia e aspettai che il senso di nausea passasse, poi, continuando a tenere gli occhi chiusi, sputai un po' di bile nella mano sinistra e allungai la destra in cerca della trapunta.
Continuavo a tremare. Al posto della coperta la mano incontrava foglie e pezzetti di legno e solo allora cominciai a capire che non mi trovavo nel mio letto. Mi convinsi che dovevo resistere, che dovevo sforzarmi di aprire gli occhi nonostante il dolore.
Mi ritrovai in un bosco, fradicia e coperta di fango. Ovunque una quantità di foglie e rametti spezzati, nell'aria un intenso odore di terra e di humus. Sopra di me un intrico di rami si intrecciava contro il cielo nero e vellutato e, tra il fogliame, intravedevo il luccichio di un milione di stelle.
D'un tratto cominciai a ricordare. Il temporale. Il cancello. Il sentiero. Ma com'ero finita lì per terra? Se non stavo smaltendo i postumi di una sbornia, doveva essere qualcosa di molto simile.
Cominciai a esplorarmi la testa con la mano e subito trovai fra i capelli un bernoccolo grande quanto un piccolo limone. Fantastico. Pestata due volte nel giro di una settimana. Sono sicura che i pugili ne prendono meno.
Ma come era successo? Avevo inciampato ed ero caduta? Forse ero stata colpita da un ramo. Ma, nonostante la furia del temporale, nei dintorni non vedevo nessun grosso ramo. Non riuscivo a ricordare, e non mi importava. Volevo solo andarmene di lì.
Lottando contro la nausea, riuscii a mettermi carponi e cercai la torcia, che trovai sepolta nel fango. La ripulii e premetti il pulsante. Incredibile: funzionava. Quindi con uno sforzo cercai di alzarmi in piedi, lottando contro il tremore alle gambe. Appena trovata la posizione eretta, però, ebbi la sensazione che dei fuochi d'artificio mi esplodessero nel cervello e mi ritrovai appoggiata a un albero di nuovo in preda ai conati di vomito.
Il sapore della bile innescò un'altra serie di domande. Quando avevo mangiato l'ultima volta? Che ore erano? Da quanto tempo mi trovavo lì? Non lo sapevo. Capivo solo che era ancora buio e che morivo di freddo.
Passata la nausea, lasciai il mio appoggio e illuminai i paraggi in cerca del sentiero. La danza della luce sul terreno fece affiorare alla memoria il vago ricordo di un sacco interrato, e con esso una sensazione di paura. Afferrai meglio la torcia e feci un giro su me stessa per accertarmi che non vi fosse nessuno. Tornai a concentrarmi sul sacco. Dove l'avevo visto? Nella mente lo vedevo spuntare dal terreno, ma non riuscivo a dargli una collocazione.
Esplorai i dintorni in cerca di un cumulo di terra. La testa mi scoppiava e la nausea mi provocava continui conati di vomito, inutili dato lo stomaco vuoto, ma sufficienti a procurarmi un dolore ai fianchi così forte da farmi salire le lacrime agli occhi. Ero costretta a fermarmi spesso e ad appoggiarmi agli alberi in attesa che le contrazioni si placassero. I grilli intanto riscaldavano la voce per un canto d'addio al temporale, ignari del fatto che i loro suoni mi si conficcavano nel cervello come altrettante frecce acuminate.
Dopo neanche tre metri lo trovai. Tremavo al punto che stentavo a tenere ferma la torcia. Il sacco era come me lo ricordavo, solo più scoperto. L'acqua piovana scivolando sulla plastica aveva formato una pozzanghera alla sua base.
Non essendo in condizione di recuperarlo mi limitai a fissarlo. Sapevo che in casi come questi bisognava attenersi a una certa procedura o che, quanto meno, avrei dovuto chiamare una volante. Ma temevo che prima del suo arrivo qualcuno potesse introdursi nella proprietà e trafugare i resti. Mi sentii cogliere da un senso di impotenza e mi venne voglia di piangere.
Non sarebbe una cattiva idea, Brennan. Mettiti a piangere. Magari qualcuno ti sente e viene a salvarti.
Senza mai smettere di tremare, cercai di raccogliere le idee. Ben presto tuttavia mi resi conto che il mio cervello non sembrava disponibile a collaborare.
Poi però mi sembrò di distinguere il sentiero che mi aveva portata sin lì e decisi di percorrerlo a ritroso per uscire dal bosco. Almeno così speravo. Non ricordavo assolutamente come fossi arrivata fin lì e pareva proprio che, insieme alla memoria a breve termine, avessi perso anche il senso dell'orientamento. La torcia si spense senza preavviso e di colpo mi ritrovai immersa nella notte. Inutile il chiarore delle stelle che filtrava attraverso il fogliame. Inutile scuotere la torcia. Ancora più inutile insultarla.
«Merda!» Almeno ci avevo provato.
Cercai di tendere le orecchie in cerca di qualche indizio sonoro ma ovunque il bosco mi rimandava solo il canto dei grilli. Non la stimai un'indicazione molto utile.
Tentai allora di valutare la dimensione di alberi e cespugli osservando le sagome indistinte che mi circondavano ma alla fine decisi, piuttosto a caso, di avanzare nella direzione in cui stavo guardando. Dopo pochi passi, capelli e vestiti cominciarono a impigliarsi a rami invisibili mentre le piante che strisciavano sul terreno mi afferravano le caviglie.
Questo non è il sentiero, Brennan. Il bosco si fa sempre più fitto.
Camminavo indecisa sul da farsi quando di colpo sentii il terreno mancarmi sotto i piedi. Cascai in avanti e cercai di attutire la caduta con le mani e con un ginocchio. Mi ritrovai con i piedi immobilizzati e l'altro ginocchio premuto contro qualcosa di simile alla terra smossa. La torcia mi era scivolata di mano ma fortunatamente aveva ripreso a funzionare, forse a causa dell'urto, e rivolgeva verso di me il suo fascio di luce giallognola e malinconica. Abbassai lo sguardo e mi resi conto che avevo i piedi affondati in uno spazio stretto e oscuro, simile a una buca.
Con il cuore in gola riuscii faticosamente a uscirne e mi trascinai verso la torcia per poi puntarla sul punto in cui ero caduta. La luce rivelò una sorta di piccolo cratere che si apriva impietoso nel suolo come una ferita non rimarginata. Accanto al bordo notai un cono di terriccio accumulato di recente.
Non era una buca molto grande, forse cinquanta centimetri di larghezza per un metro di profondità. Il fondo era coperto di terra franata dai bordi per effetto della mia caduta. La fissai per un po', percependo qualcosa di strano. D'un tratto capii. Era praticamente asciutta. Anche a una mente annebbiata come la mia in quel momento, quel particolare diceva che la buca era stata scavata, o coperta, dopo il temporale.
Ricominciai a tremare. Ero ancora fradicia e l'aria si era fatta piuttosto fredda per via dell'acquazzone. Mi strinsi il petto fra le braccia sperando in un po' di calore ma riuscii solo a deviare il fascio di luce dalla buca che rimase in ombra. Puntai di nuovo la torcia. Ma poi perché mai qualcuno avrebbe dovuto...
Improvvisamente il vero problema mi fu chiaro e mi sentii serrare lo stomaco per la paura. Chi aveva scavato, o ricoperto, quella buca? E dov'era in quel momento? Fu quell'ultimo quesito a darmi la forza di muovermi. Quasi in preda al panico e con il cuore che batteva all'impazzata, cominciai a illuminare a trecentosessanta gradi la zona in cui mi trovavo.
Non so dire che cosa mi aspettassi di vedere. Forse un dobermann inferocito, o Jeremy Bates con la madre, oppure Hannibal Lecter in persona. Comunque fosse, non vidi niente di tutto ciò. Ero sola, in compagnia degli alberi e della boscaglia e immersa nell'oscurità punteggiata di stelle.
Quel giro di luce, tuttavia, mi fece ritrovare il sentiero. Mi allontanai dalla buca e, barcollando, mi avvicinai al sacco, ormai quasi scoperto. Aiutandomi con i piedi, lo ricoprii con uno strato di foglie. Certo, quel trucco non avrebbe ingannato chi lo aveva portato lì ma forse era almeno sufficiente a proteggerlo da sguardi indiscreti.
Quando ebbi finito, recuperai dal marsupio lo spray contro gli insetti e lo incastrai fra i rami di un albero vicino, come segnale di riferimento. Mi avviai quindi lungo il sentiero, incespicando di continuo nella boscaglia e stentando a reggermi in piedi; sentivo le gambe anestetizzate ed ero costretta a muovermi al rallentatore.
Al bivio fra il sentiero e la strada infilai ì guanti su due rami diversi e poi mi precipitai verso il cancello. Ero esausta e stavo così male che temevo di svenire da un momento all'altro. Sapevo che l'effetto dell'adrenalina non sarebbe durato ancora a lungo, e che poi sarei crollata. E a quel punto volevo essere altrove.
La mia vecchia Mazda era ancora dove l'avevo lasciata. Senza pensare che qualcuno potesse essere lì in agguato, mi lanciai verso l'auto attraversando la strada senza guardare. Quasi come un automa, mi frugai le tasche una dopo l'altra in cerca delle chiavi. Quando finalmente riuscii a trovarle, maledissi la mia abitudine di tenerne tante in un unico mazzo. Fra tremiti e imprecazioni le chiavi mi caddero a terra due volte prima che riuscissi a individuare quella giusta. Aprii la portiera e mi gettai dentro l'abitacolo.
Subito bloccai la portiera con la sicura, poi abbracciai il volante e vi appoggiai la testa. Volevo dormire, volevo sfuggire a quella situazione evadendo da me stessa. Ma non dovevo lasciarmi andare: qualcuno poteva essere lì a spiarmi, pronto ad agire nel momento più opportuno.
Fermarsi qui un secondo di più sarebbe un grave errore, ricordai a me stessa con gli occhi che si chiudevano.
Lasciai i pensieri liberi di vagare. Provai a sollevarmi dal volante abbandonando le mani in grembo. Una fitta mi perforò il cervello aiutandomi a riordinare le idee. Riuscii persino a non vomitare. Stavo facendo progressi.
«Se hai intenzione di vedere ancora la luce del giorno, Brennan, farai meglio a portare il culo lontano da qui.»
Il suono della mia voce nell'angusto spazio dell'abitacolo mi aiutò a tornare alla realtà. Avviai il motore e l'orologio sul cruscotto diffuse un chiarore verdino. Le due e un quarto. Da quanto tempo ero fuori casa?
Non riuscivo a smettere di tremare e alzai il riscaldamento al massimo, pur sapendo che era inutile. Il freddo che sentivo dipendeva solo in parte dall'aria fresca e dal vento. Era una sensazione che nasceva dal profondo della mia anima e non sarebbe certo passata con il semplice aiuto del riscaldamento. Senza più voltarmi, ingranai la marcia e partii.
L'acqua mi tamburellava in testa per poi scivolarmi lungo il corpo. Sollevai il viso verso il getto della doccia e mi passai più volte la spugna sul seno, nella speranza che quella schiuma al gelsomino potesse cancellare dal mio corpo gli eventi della notte. Ero lì sotto già da una ventina di minuti, nel tentativo di allontanare il freddo e le voci che mi echeggiavano in testa, e presto l'acqua sarebbe diventata fredda.
Calore, vapore e schiuma profumata, però, non sembravano poter alleviare la tensione muscolare né i dolori alla testa. Forse perché per tutto il tempo ero rimasta tesa nello sforzo di cogliere il minimo rumore e concentrata sul cordless, che avevo portato in bagno, in attesa della telefonata di Ryan.
Avevo chiamato il comando dell'SQ appena entrata in casa, senza neppure darmi il tempo di togliermi i vestiti fradici. All'altro capo del filo la centralinista si era dimostrata piuttosto riluttante a disturbare un investigatore nel cuore della notte e, molto professionalmente, si era rifiutata di darmi il numero di casa. Purtroppo avevo lasciato il biglietto da visita di Ryan in ufficio e vista la situazione - tremore incontrollato, la testa che scoppiava e lo stomaco sul punto di rovesciarsi - non mi ero certo trovata nelle condizioni migliori per una garbata insistenza. Avevo quindi optato per un tono e delle parole molto convincenti. Ma il giorno dopo mi sarei dovuta scusare.
Era passata circa mezz'ora. Mi tastai dietro la testa. Il bernoccolo era ancora lì, sotto i capelli bagnati, simile a un uovo sodo e morbido al tatto. Prima di fare la doccia, avevo messo in pratica le istruzioni ricevute in occasione di altri incidenti. Avevo controllato le pupille, ruotato la testa verso destra e verso sinistra e mi ero pizzicata mani e piedi per verificarne la sensibilità. Tutto mi era parso in ordine e funzionante. Se anche si fosse trattato di commozione cerebrale, non doveva essere molto grave.
Chiusi il rubinetto dell'acqua e uscii dalla doccia. Il telefono era dove l'avevo lasciato, muto e assente.
Merda. Ma dov'era quell'uomo?
Mi infilai il vecchio accappatoio di spugna, mi avvolsi un asciugamano intorno alla testa e andai a controllare la segreteria telefonica per verificare che la chiamata non mi fosse sfuggita. Nessuna spia lampeggiante. Merda. Sollevai la cornetta e premetti i due pulsantini per accertarmi che il telefono funzionasse. Segnale di libero. Ovvio che funzionava. Ero semplicemente agitata.
Portai l'apparecchio sul tavolino e mi allungai sul divano. Ero certa che presto avrebbe chiamato. Inutile andare a dormire. Chiusi gli occhi e cercai di riposare qualche minuto prima di prepararmi qualcosa da mangiare. In realtà, nel giro di un attimo, freddo, stress, fatica e mal di testa ebbero il sopravvento e, vincendo ogni resistenza, mi travolsero sprofondandomi in un sonno agitato.
Mi trovavo fuori da un recinto, e guardavo una figura vaga che scavava con una pala enorme. L'attrezzo usciva dal terreno coperto di topi. Io abbassavo lo sguardo e vedevo topi ovunque, e dovevo tenerli lontani menando calci. La figura poi si voltava verso di me ed era Pete. Mi indicava, e diceva qualcosa, ma io non lo capivo. Allora cominciava a gridare e a fare gesti. La bocca era un cerchio nero che si allargava sempre di più, e inglobava la faccia trasformandola in una mostruosa maschera da clown.
I topi mi correvano sui piedi. Uno affondava i denti nella testa di Isabelle Gagnon e la trascinava lungo il prato.
Cercavo di correre ma le gambe non si muovevano. Ero in piedi dentro una tomba, imprigionata nel terreno. La terra rotolava nella fossa. Charbonneau e Claudel mi guardavano dall'alto. Cercavo di parlare ma le parole non mi uscivano di bocca. Volevo che mi tirassero fuori. Allungavo le braccia verso di loro ma loro mi ignoravano.
Poi arrivava un'altra persona, un uomo con un abito lungo e uno strano cappello. Guardava giù e mi chiedeva se avevo fatto la cresima. Non riuscivo a rispondere. Allora mi diceva che quella era proprietà della Chiesa, che dovevo andare via, e che solo le persone che lavoravano per la Chiesa potevano varcare il cancello. Il vento gli faceva svolazzare la tonaca e io avevo paura che il cappello cadesse nella tomba. L'uomo si teneva la veste con una mano e con l'altra cercava di usare un cellulare. Poi il telefono cominciava a squillare e lui lo ignorava. E il telefono squillava... squillava...
Come il telefono sul mio tavolino, che alla fine riuscii a distinguere da quello del sogno. A fatica tornai alla realtà e afferrai il ricevitore.
«Sì?» risposi piuttosto annebbiata.
«Brennan?»
Anglofono. Ruvido. Familiare. Mi sforzai di fare mente locale.
«Dica.» Mi guardai il polso. Niente orologio.
«Sono Ryan. Spero che mi abbia chiamato per una buona ragione.»
«Che ore sono?» Non avevo la minima idea di quanto avevo dormito. Potevano essere cinque minuti come cinque ore.
«Le quattro e un quarto.»
«Mi scusi un secondo.»
Appoggiai la cornetta e mi precipitai in bagno. Mi sciacquai la faccia con l'acqua fredda e, tornando verso il telefono, canticchiai il ritornello di una canzone. Mi riavvolsi l'asciugamano in testa e fui di nuovo da Ryan. Non volevo irritarlo ulteriormente facendolo aspettare ma, meno ancora, volevo dargli l'impressione di essere intontita o di fare discorsi sconclusionati. Meglio prendersi un minuto in più e schiarirsi le idee.
«Bene. Eccomi qua. Mi scusi.»
«Qualcuno stava cantando?»
«Allora... questa notte sono andata a Saint-Lambert», attaccai. Alle quattro e un quarto di mattina non era il caso di perdersi nei dettagli. «Ho rintracciato il posto dove Saint-Jacques ha messo la X. È una specie di terreno abbandonato di proprietà della Chiesa.»
«E lei mi ha chiamato alle quattro del mattino per dirmi questo?»
«Ho trovato un cadavere. È in avanzato stato di decomposizione, forse già scheletrizzato, a giudicare dall'odore. Dobbiamo assolutamente andare là prima che qualcuno lo trovi, o che tutti i cani del vicinato decidano di fare uno spuntino.»
Tirai un profondo respiro e aspettai.
«Ma le ha dato di volta il cervello?»
Non capii se si riferiva a quanto avevo trovato o al fatto che ci ero andata da sola. Poiché in quest'ultimo caso forse aveva ragione, scelsi la prima ipotesi.
«Le assicuro che quando trovo un cadavere sono perfettamente in grado di riconoscerlo.»
Seguì un lungo silenzio, e poi: «Sepolto o in superficie?»
«Sepolto, ma non molto in profondità. La porzione che ho visto emergeva dal terreno e la pioggia ha peggiorato la situazione.»
«È sicura che non siano resti di un vecchio cimitero?»
«Il corpo è in un sacco di plastica.» Come quello di Gagnon e di Trottier. Ma la precisazione non fu necessaria.
«Merda.» Sentii il rumore di un fiammifero seguito da una lunga espirazione.
«Pensa che dovremmo andarci subito?»
«Non ci penso nemmeno.» Una boccata di fumo. «E che cosa significa questo plurale? Si metta pure in testa, cara Brennan, che anche se lei è famosa per essere un tipo intraprendente, a me non fa nessun effetto. E la sua smania di avventura la risparmi per Claudel, che tanto con me non attacca. Se proprio vuole un consiglio, la prossima volta che muore dalla voglia di farsi un giretto sulla scena di un delitto, chieda cortesemente se qualcuno della Omicidi ha ancora un posto per lei in macchina. Forse si è dimenticata che la nostra fittissima agenda di lavoro contempla ancora questo genere di operazioni.»
Non mi aspettavo la sua gratitudine ma non ero preparata a essere aggredita in quel modo. Mi stavo arrabbiando e il mio mal di testa peggiorava. Aspettai, ma lui non proseguì.
«La ringrazio per avermi richiamata così presto.»
«Hm.»
«Dove si trova?» Non avrei mai fatto una domanda simile se fossi stata in pieno possesso delle mie facoltà mentali. E infatti me ne pentii subito.
Breve pausa. «Sono in compagnia.»
Ottima mossa, Brennan. Non c'è proprio da stupirsi che sia irritato.
«Credo che questa notte laggiù ci fosse qualcun altro.»
«Cosa?»
«Mentre guardavo il sacco, mi è sembrato di sentire un rumore, poi sono stata colpita alla testa e sono caduta a terra. Ma il temporale ha scatenato un inferno e quindi non sono tanto sicura di cosa sia successo veramente.»
«È ferita?»
«No.»
Altra pausa. Mi pareva quasi di sentire il rumore del suo cervello che valutava come agire.
«Mando una volante a piantonare il sito fino a domattina. Poi manderò anche la Scientifica. Crede che avremo bisogno dei cani?»
«Io ho visto un sacco solo ma non escludo che ce ne siano altri. Mi è sembrato di vedere altre buche nella zona. Probabilmente è una buona idea.»
Aspettai una risposta. Non arrivò.
«A che ora passa a prendermi?» domandai.
«A nessuna ora, dottoressa Brennan. Questo è un delitto vero, un caso per la Omicidi, e non un caso della Signora in giallo.»
A quel punto non riuscii più a trattenermi. Le tempie mi scoppiavano e mi sentivo il centro della testa bruciare.
«"Ha più buchi della Transcanadiana"», sbottai. «"Mi porti qualche altro indizio." Non è forse stato lei a dirmi questo, Ryan? Bene, eccoli, gli altri indizi. E io la posso portare direttamente da loro. Inoltre, se non mi sbaglio, le ho parlato di uno scheletro. Ossa, Ryan. Materia di mia competenza, se non le dispiace.»
Seguì un silenzio così lungo che credetti avesse riagganciato.
«Passo alle otto.»
«Sarò pronta.»
«Brennan?»
«Eh?»
«Forse è il caso che investa qualche soldo in un elmetto.»
Fine della comunicazione.
16
Ryan fu di parola e alle otto e quarantacinque stavamo già parcheggiando dietro il furgone della Scientifica. Eravamo a dieci metri da dove avevo posteggiato la macchina la notte precedente, ma mi sembrava di essere in un mondo completamente diverso da quello lasciato solo qualche ora prima. Splendeva il sole e la strada pulsava di vita. Le auto e le volanti erano incolonnate su entrambi i lati della via e una ventina di persone, in divisa e in borghese, parlavano fra loro a gruppetti.
Gli agenti del DEJ, della SQ e di Saint-Lambert si distinguevano l'uno dall'altro per le uniformi differenti. Tutti insieme ricordavano uno di quegli stormi formati da uccelli di razze diverse in cui le singole appartenenze sono affermate dai colori del piumaggio.
Una donna con un'enorme borsa a tracolla, probabilmente una giornalista, e un uomo coperto di macchine fotografiche fumavano appoggiati al cofano di una Chevrolet bianca. Più avanti, sullo spiazzo erboso adiacente al cancello, un pastore tedesco ansimava impaziente sorvegliato da un uomo in tuta blu. Sembrava non vedesse l'ora di mettersi al lavoro e, piuttosto confuso da quell'attesa, continuava a lanciarsi in brevi incursioni per poi scattare verso il suo addestratore scodinzolando a testa alta.
«Ci sono proprio tutti», disse Ryan, sganciando la cintura di sicurezza.
Non si era scusato per come si era comportato al telefono, né mi aspettavo che lo facesse. Nessuno dà il meglio di sé alle quattro del mattino. Per tutto il tragitto era stato cordiale, quasi scherzoso, e mi aveva raccontato una serie di aneddoti grotteschi legati ai luoghi che attraversavamo. Là, in quell'appartamento, una donna ha aggredito il marito con una padella e poi l'ha usata contro di noi. Laggiù invece, in quel fast-food, abbiamo trovato un uomo nudo bloccato in un condotto di aerazione. Chiacchiere di poliziotti. Mi chiesi se avessero l'abitudine di assegnare alle vie della città dei nomi particolari, derivati dagli incidenti descritti nei loro rapporti, o se invece si affidassero alla comune toponomastica, come succede a tutti noi.
Ryan individuò Bertrand e gli si fece incontro. Insieme a lui c'erano un agente della SQ, Pierre LaManche e un uomo magro e biondiccio con un paio di occhiali scuri. Lo seguii sull'altro lato della strada scrutando i presenti in cerca di Claudel o di Charbonneau. Ufficialmente quell'operazione riguardava l'SQ, ma pensavo che li avrei trovati comunque. Invece sembravano essere gli unici a mancare.
Quando fummo più vicini notai che l'uomo con gli occhiali da sole era agitato. Le mani non trovavano pace e continuava a tormentarsi i baffi, spostando qualche pelo e poi rimettendolo esattamente come prima. La sua carnagione era stranamente grigiastra e uniforme, priva di consistenza e di sfumature. Portava un bomber di pelle e stivali neri. Non avrei saputo dire la sua età: poteva avere venticinque anni come sessantacinque.
Mi unii al gruppo e subito mi sentii addosso lo sguardo di LaManche. Fece un cenno con la testa ma non disse nulla. Cominciava a venirmi qualche dubbio. Tutto quel circo di persone l'avevo messo in movimento io. E se non avessero trovato niente? E se qualcuno nel frattempo aveva fatto sparire il sacco? E se davvero si trattava semplicemente di un vecchio cimitero? In fondo la notte prima mi ero mossa nel buio più fitto ed ero molto agitata. Fino a che punto mi ero immaginata tutto? Cominciavo a sentire un nodo allo stomaco.
Bertrand ci salutò. Come sempre, sembrava un damerino. Per quella riesumazione aveva scelto le sfumature calde della terra, toni di beige e di marrone ecologicamente corretti. Naturalmente, di coloranti chimici nemmeno l'ombra.
Ryan e io salutammo i presenti poi ci voltammo verso l'uomo in occhiali da sole. Fu Bertrand a fare le presentazioni.
«Andrew, dottoressa, vi presento padre Poirier. È qui per rappresentare la diocesi.»
«L'arcidiocesi», lo corresse il prete.
«Pardon. Arcidiocesi. Perché quella è una proprietà della Chiesa», precisò Bertrand indicando con il pollice il recinto alle sue spalle.
«Tempe Brennan», dissi, offrendo spontaneamente la mano.
Padre Poirier mi puntò addosso le sue lenti scure e mi avvolse la mano in una stretta fiacca e apatica. Se si dovessero valutare le persone in base a questo gesto, quell'uomo avrebbe rimediato un due meno. Le sue dita erano fredde e mollicce, come le carote lasciate in frigorifero troppo a lungo. Quando fui di nuovo libera faticai per non cedere alla tentazione di pulirmi la mano sui jeans.
Ripeté il rituale con Ryan, che non lasciò trasparire alcuna emozione. La sua allegria mattutina si era ormai dileguata, lasciando posto alla severa professionalità del poliziotto. Poirier diede l'impressione di voler prendere la parola ma, data l'espressione dell'investigatore, cambiò subito idea e si stampò in faccia un sorriso di circostanza. Implicitamente aveva riconosciuto il passaggio di autorità: da quel momento il capo era Ryan.
«Qualcuno è già andato sul posto?» domandò quest'ultimo.
«Nessuno. Cambronne è arrivato qui verso le cinque di questa mattina», rispose Bertrand indicando un agente in divisa alla sua destra. «Nessuno è entrato, né uscito. Il prete ci ha detto che solo due persone hanno accesso alla proprietà: lui e il custode, un nonnetto sull'ottantina che lavora qui dalla notte dei tempi.»
«Il cancello non poteva essere aperto», intervenne Poirier rivolgendosi a me. «Lo controllo tutte le volte che vengo qui.»
«E cioè ogni quanto tempo?»
Gli occhiali da sole si spostarono da me a Ryan. La risposta del prete si fece attendere qualche secondo.
«Almeno una volta alla settimana. La Chiesa sente di avere una certa responsabilità sui suoi possedimenti. Noi non...»
«Che cos'è questo posto?»
Pausa. «Il monastero di Saint-Bernard. È stato chiuso nel 1983. La Chiesa ha ritenuto che le cifre non giustificassero il suo mantenimento in attività.»
Trovai strano che parlasse della Chiesa come di un essere animato, come di un'entità dotata di volontà e sentimenti. Anche il suo francese era particolare e non assomigliava affatto alla lingua piatta e nasale a cui ormai ero abituata. Pur avendo capito che non si trattava dell'accento québecois, non riuscivo a localizzarlo. Non sembrava il suono puro e aspro del francese di Francia, quello che in Nordamerica viene chiamato "parigino", e quindi immaginai che potesse essere belga o svizzero.
«E che cosa succede dentro questo monastero?» proseguì Ryan.
Ancora una pausa, come se le onde sonore dovessero percorrere una lunga distanza prima di arrivare a destinazione.
«Oggi, niente.»
Il prete non aggiunse altro e sospirò. Forse aveva ripensato ai tempi in cui la Chiesa prosperava e i monasteri fervevano di attività. O forse stava solo raccogliendo le idee perché intendeva rilasciare alla polizia delle dichiarazioni precise. Le lenti scure gli celavano lo sguardo. Strano soggetto, per essere un prete, con quella carnagione immacolata, il giubbotto di pelle e gli stivali da motociclista.
«Io sono incaricato di controllare la proprietà», spiegò, «mentre il custode si occupa di tenere tutto in ordine.»
«Tutto che cosa?» Ryan stava prendendo appunti su un notes a spirale.
«La caldaia, le tubature. La neve da spalare. Sa, qui da noi fa molto freddo.» Fece un gesto con un braccio come per indicare l'intero stato del Québec. «Le finestre. A volte i ragazzini si divertono a rompere i vetri con le pietre.» Mi lanciò uno sguardo. «Le porte e i cancelli. Il custode controlla che tutto sia chiuso.»
«E i lucchetti, quando sono stati controllati per l'ultima volta?»
«Domenica alle sei e mezzo del pomeriggio. Erano tutti a posto.»
La prontezza di quella risposta mi colpì. Non aveva avuto alcuna esitazione. Forse Bertrand gli aveva fatto la stessa domanda, o forse Poirier l'aveva semplicemente prevista. Eppure la rapidità con cui giunse diede l'impressione che fosse preparata.
«Per caso ha notato niente di anomalo?»
«Rien.» Niente.
«Questo custode... com'è che si chiama?»
«Monsieur Roy.»
«Quando viene in questo posto?»
«Tutti i venerdì, a meno che non sia necessario fare qualcosa di particolare.»
Ryan lo ascoltò in silenzio, continuando a osservarlo.
«Per esempio spalare la neve, o riparare una finestra.»
«Padre Poirier, se non sbaglio l'investigatore Bertrand dovrebbe già averle domandato qualcosa circa l'eventuale presenza di tombe all'interno della proprietà.»
Pausa. «Sì. No, non ce ne sono.» Sottolineò la risposta scuotendo la testa e gli occhiali gli scivolarono sul naso. Una stanghetta saltò via da dietro l'orecchio e la montatura si mise di traverso.
«Questo era un monastero, è sempre stato un monastero. Non c'è nessuno sepolto qui. Comunque ho già provveduto a contattare la nostra archivista e le ho chiesto di verificare i documenti, per averne la certezza assoluta.» Mentre parlava si era portato entrambe le mani alle tempie e aveva risistemato con cura gli occhiali da sole.
«Lei sa perché siamo qui?»
Poirier annuì e le lenti scivolarono di nuovo. Fece per parlare ma poi non disse nulla.
«Va bene.» Ryan chiuse il notes e se lo infilò in tasca. «Secondo lei, come dobbiamo procedere?» La domanda era rivolta a me.
«Vi accompagno sul posto e vi mostro quello che ho trovato. Dopodiché recuperiamo il sacco e sguinzagliamo i cani per verificare che non ci sia altro.» Speravo che la mia voce non tradisse nessuna insicurezza. Merda. E se invece non c'era niente?
«Bene.»
Ryan si avvicinò all'uomo in tuta. Il pastore tedesco gli andò incontro e gli diede qualche colpetto sulla mano per attirare la sua attenzione, guadagnandosi qualche carezza sulla testa. Dopo aver parlato con l'addestratore, Ryan tornò da noi e tutti insieme ci avviammo verso il cancello. Mentre camminavamo scrutavo i dintorni con discrezione, in cerca di qualche segno che confermasse il mio passaggio. Ma non trovai nulla.
Una volta giunti davanti all'entrata, padre Poirier estrasse da una tasca un enorme mazzo da cui scelse una chiave. Sollevò il lucchetto, gli diede uno strattone e poi lo sbatté contro le sbarre, come per verificarlo un'ennesima volta. Un leggero tintinnio risuonò nell'aria del mattino mentre una pioggerella di ruggine si depositava sul terreno. Ero stata io a chiuderlo qualche ora prima? Non riuscivo a ricordare.
Aprì il lucchetto, lo tolse e spalancò il cancello. Cigolò appena. Niente a che vedere con il lancinante scricchiolio metallico che ricordavo. Arretrò di qualche passo per lasciarmi entrare e tutti rimasero in attesa. LaManche non aveva ancora detto una parola.
Mi sistemai lo zaino sulle spalle, passai accanto al prete e mi incamminai lungo la strada. Nella luce tersa del mattino il bosco sembrava immerso in tutt'altra atmosfera. Il sole filtrava attraverso il fogliame e l'aria era densa del profumo dei pini. Quel luogo evocava immagini di case in riva al lago e di campeggi estivi, e non aveva niente che inducesse a pensare a cadaveri e a presenze notturne. Mi muovevo con circospezione, esaminando ogni albero, ogni centimetro di terreno, attenta a scorgere la minima impronta, un ramo spezzato o un cespuglio calpestato, un qualsiasi segno che potesse provare il passaggio di un essere umano. Soprattutto del mio.
Passo dopo passo la mia ansia cresceva, e il cuore ormai aveva cominciato a battermi forte. E se non avevo chiuso il cancello? Qualcuno poteva essere entrato dopo di me. E cosa era successo dopo che me n'ero andata?
Mi muovevo fra quegli alberi con la sensazione di trovarmi in un luogo dove non ero mai stata prima ma che comunque, forse per averne letto o per averlo visto in fotografia, mi sembrava familiare. Cercai di capire dove poteva essere il sentiero basandomi sulla distanza percorsa e sul tempo trascorso, ma i dubbi continuavano ad aumentare. I ricordi erano confusi e sfocati, come in un sogno che si fa fatica a riportare alla mente. I fatti salienti erano nitidi ma i dettagli, per esempio la sequenza dei singoli momenti o la loro durata, erano molto vaghi. Fammi trovare qualcosa che mi aiuti a ricordare, scongiurai.
La mia preghiera fu esaudita sotto forma di un paio di guanti. Non ci pensavo più. Sulla sinistra, all'altezza degli occhi, scorsi tre dita bianche spuntare da un ramo. Ma certo! Setacciai con lo sguardo gli alberi vicini e scovai il secondo guanto, infilato in un piccolo acero a poco più di un metro da terra. D'un tratto mi rividi tutta tremante, procedere a tentoni nel buio per sistemare quel segnale. Mi diedi un ottimo voto per la lungimiranza, ma un'insufficienza per la memoria. In realtà ero convinta di averli messi più in alto. Ma forse, come Alice nel Paese delle Meraviglie, in quel bosco avevo cambiato dimensione.
Mi allontanai dagli alberi segnati con i guanti e imboccai quello che, a fatica, individuai come il sentiero della notte precedente. A parte la densità della vegetazione, che lungo quella striscia sottile permetteva a piante e cespugli di crescere separati gli uni dagli altri lasciando trasparire i colori della terra e delle foglie secche, non c'era nient'altro che lo differenziasse dal resto del sottobosco.
Ripensai ai puzzle che facevo da bambina. Insieme alla nonna analizzavo ogni pezzo in cerca di quello giusto, occhi e cervello attenti a ogni minima variazione di colore o di ombreggiatura. Era forse l'abilità sviluppata in quegli anni ad avermi permesso di trovare quel sentiero nell'oscurità?
Foglie e rametti mi scricchiolavano sotto i piedi. Non avevo svelato il segreto dei guanti infilati sui rami per colpire i miei accompagnatori con le mie qualità di segugio. Dopo qualche metro vidi il flacone dello spray. Impossibile ignorarlo. L'arancione vivace del tappo spiccava tra il verde come un semaforo.
E lì vicino, ai piedi di una quercia alba, trovai il cumulo che avevo ricoperto. Si vedevano ancora i segni che avevo lasciato con le dita mentre raccoglievo foglie e terriccio per la copertura. Dovevo ammettere che il mio intervento, più che nascondere il sacco, lo evidenziava, ma in quel momento mi era sembrata la soluzione migliore.
Avevo già partecipato a molte operazioni del genere. Quasi sempre, i cadaveri vengono trovati grazie a un'indicazione o a un colpo di fortuna. Possono essere informatori che tradiscono i compiici, o anche bambini esaltati che raccontano le loro imprese. C'era una puzza tremenda, allora abbiamo cominciato a frugare in giro e l'abbiamo trovato. Era una sensazione strana per me essere come uno di quei bambini.
«Eccolo.» Indicai il monticello coperto di foglie.
«Sicura?» mi domandò Ryan.
Lo guardai appena. Nessuno fiatava. Appoggiai lo zaino per terra e ne estrassi un paio di guanti da giardinaggio. Poi mi avvicinai al cumulo facendo attenzione a dove mettevo i piedi per ridurre al minimo le impronte. Precauzione inutile, ripensando al calpestio della notte precedente, ma l'ufficialità della situazione richiedeva un comportamento irreprensibile.
Mi accucciai e rimossi una quantità di foglie sufficiente a scoprire una piccola porzione del sacco. Il grosso era ancora sepolto nel terreno e la sagoma irregolare lasciava supporre che il contenuto fosse ancora all'interno. Sembrava intatto. Quando mi girai vidi padre Poirier farsi il segno della croce.
Ryan si rivolse a Cambronne: «Forza, scattiamo qualche foto per i dépliant turistici».
Mi riunii al gruppo e aspettai in silenzio che Cambronne procedesse con il suo rituale. Lo osservai estrarre la sua attrezzatura, valutare la posizione e poi fotografare sacco e cumulo di terra da distanze e inquadrature diverse. Infine abbassò la macchina fotografica e si fece da parte.
Ryan si voltò verso LaManche. «La dottoressa?»
LaManche pronunciò la prima parola della giornata. «Temperance?»
Presi una paletta dallo zaino, tornai vicino al sacco e cercai di scoprirne il più possibile la superficie. Era rimasto così come lo ricordavo, incluso il buchette che avevo fatto con l'unghia del pollice.
Con la paletta scavai con molta cautela un solco intorno al perimetro del cumulo. L'odore antico e stantio del terreno mi fece pensare che le sue molecole dovessero trattenere infinitesime quantità di tutto ciò che nei millenni il terreno stesso aveva nutrito.
Da lontano mi giungevano le voci degli agenti rimasti sulla strada, ma intorno a me regnava il silenzio, interrotto solo dal canto degli uccelli, dal ronzio degli insetti e dal lavorio incessante della mia paletta. Concluse le danze frenetiche della notte, i rami si concedevano ritmi più tranquilli lasciandosi dondolare nella brezza del mattino e proiettando le loro ombre fluttuanti sul sacco e sui visi di quanti stavano assistendo alla sua esumazione. Osservai quelle sagome muoversi sulla plastica, simili ai pupazzi di uno spettacolo di ombre cinesi.
Dopo circa un quarto d'ora il cumulo era diventato una buca e più della metà del sacco era ormai visibile. Sospettavo che, per effetto del processo di decomposizione, il contenuto avesse cambiato disposizione e che le ossa non fossero più trattenute da tendini e legamenti. Sempre che di ossa si trattasse.
A quel punto valutai di aver asportato una quantità di terra sufficiente, quindi deposi la paletta e afferrai l'estremità del sacco tirando piano. Nessun risultato. Tutto come la notte precedente. Forse sottoterra qualcuno tratteneva l'altra estremità sfidandomi in una macabra gara di tiro alla fune?
Mentre scavavo Cambronne aveva scattato alcune fotografie e si teneva pronto alle mie spalle per fissare in Kodachrome il momento dell'estrazione del sacco.
Mi strofinai i guanti sui jeans, cercai di spostare la presa più in basso possibile e diedi uno strattone breve e secco. Lieve movimento. La terra non aveva intenzione di cedere il suo tesoro, ma almeno avevo allentato la sua stretta. Lo spostamento aveva provocato un nuovo assestamento del contenuto. Ripresi fiato e provai ancora, questa volta con più forza. Volevo sfilarlo senza romperlo. Di nuovo un leggero movimento.
Puntai bene i piedi e con un ultimo strattone il mio rivale sotterraneo fu vinto. Riavvolsi le mani intorno alla plastica e, indietreggiando un centimetro alla volta, estrassi il sacco dalla buca.
A quel punto mollai la presa e mi scostai leggermente. Era un normale sacco per l'immondizia, del tipo più comune. Intatto. La superficie era irregolare per via del contenuto. Non era molto pesante, e quello non era un buon segno. O forse sì? Sarei stata umiliata dal cadavere di un cane, oppure vendicata grazie ai resti di un corpo umano?
Cambronne entrò in azione e scattò una serie di fotografie. Io mi sfilai un guanto e presi il coltello svizzero dalla tasca.
Dopo che Cambronne ebbe finito mi inginocchiai accanto al sacco. Mi tremavano le mani ma riuscii ugualmente a infilare l'unghia del pollice nell'apposita lunetta e ad aprire il coltello. L'acciaio inossidabile brillò, colpito da un raggio di sole. Decisi di praticare l'incisione dalla parte dell'imboccatura. Mi sentivo cinque paia di occhi addosso.
Guardai LaManche. Il gioco delle ombre gli modificava i lineamenti. Mi domandai per un istante come apparisse la mia faccia sudicia alla luce del sole. LaManche annuì e io premetti la lama.
Prima che l'acciaio potesse lacerare la plastica, udii un frastuono fortissimo che impedì alla mia mano di procedere oltre, come fosse stata bloccata da una corda invisibile. Tutti lo avevamo sentito ma fu Bertrand a dare voce al pensiero collettivo.
«Che cazzo è stato?»
17
Dopo qualche secondo ci rendemmo conto che quell'improvvisa mitragliata di suoni altro non era che un intreccio di voci concitate e di latrati convulsi amplificati dall'agitazione. Non riuscimmo a distinguere le parole ma capimmo che l'esplosione sonora proveniva dall'interno della proprietà, alla nostra sinistra. Subito pensai che il mio aggressore notturno fosse tornato e che tutti i poliziotti dello stato, e almeno un pastore tedesco, si fossero lanciati al suo inseguimento.
Guardai Ryan e gli altri. Come me, erano rimasti pietrificati. Poirier, la mano paralizzata sul labbro superiore, aveva finalmente smesso di tormentarsi i baffi.
L'incantesimo fu rotto da uno scricchiolio di rami spezzati. Sembrava che qualcuno si stesse energicamente e rapidamente aprendo un varco fra la vegetazione. Come rispondendo a un unico impulso, ci voltammo tutti dalla stessa parte e dal folto degli alberi risuonò un richiamo.
«Ryan!»
«Sono qui.»
Ci orientammo in direzione della voce.
«Sacré bleu.» Altri scricchiolii.
Davanti a noi comparve infine un agente della SQ che cercava di difendersi dalle sferzate dei rami e intanto non finiva più di borbottare. Respirava a fatica e la faccia bovina appariva congestionata. I pochi capelli che gli rimanevano in testa erano appiccicati alla fronte, imperlata di sudore. Nel vederci appoggiò le mani sulle ginocchia e si fermò a riprendere fiato. Il cuoio capelluto era striato dai graffi lasciati dai rami.
Fece trascorrere qualche secondo poi tornò in posizione eretta puntando il pollice alle sue spalle, indicando il punto da cui era venuto. Continuava ad ansimare rumorosamente, come se l'aria dovesse passare attraverso un filtro ostruito. «Ryan, forse è meglio che vada a dare un'occhiata laggiù. Quell'accidente di un cane sembra impazzito, non riusciamo più a tenerlo.»
Con la coda dell'occhio intravidi la mano di Poirier puntare verso la fronte e poi scivolare sul petto. Un altro segno della croce.
«Cosa?» Ryan inarcò le sopracciglia stupito.
«De Salvo gli ha fatto fare un giro della proprietà, come aveva detto lei, e a un certo punto quel maledetto ha cominciato a girare in tondo abbaiando all'impazzata, come se Hitler e tutto il fottuto esercito tedesco fossero seppelliti là sotto.» Si interruppe un istante. «Ascolti anche lei cosa sta facendo!»
«E allora?»
«Come "e allora"? Quell'idiota d'un cane sta per rimetterci le corde vocali. Se lei non va subito laggiù comincerà a correrci intorno al culo.»
La comicità di quell'immagine mi strappò un accenno di sorriso.
«Cercate di tenerlo buono ancora per qualche minuto. Dategli qualcosa da mangiare, o una dose di Valium, se necessario. Qui c'è ancora da fare.» Consultò l'orologio. «Torni fra dieci minuti.»
L'agente scrollò le spalle, lasciò il ramo che stava tenendo e si voltò per andarsene.
«Ehi, Piquot!»
Il faccione tornò a girarsi verso di noi.
«Da quella parte c'è un sentiero.»
«Quanti sacrifici...» sibilò Piquot, addentrandosi nella macchia verso il sentiero che Ryan gli aveva indicato. Una decina di metri e lo avrebbe perso, ne ero certa.
«Ah, Piquot...» lo chiamò ancora Ryan.
L'agente si voltò ancora una volta.
«Fate in modo che Rin Tin Tin non combini disastri.» Poi si rivolse a me. «Brennan, si dia da fare. Sta aspettando il suo compleanno, per caso?»
Mentre Piquot scompariva nel bosco, affondai la lama nella plastica praticando un'apertura trasversale.
Non più sigillato dentro il sacco, l'odore dei resti cominciò a diffondersi lentamente nello spazio circostante. Non era il fetore di putrefazione con cui mi aveva aggredito il cadavere di Isabelle Gagnon, ma un sentore di terra e di vegetali decomposti mescolato a un odore primordiale che parlava dello scorrere del tempo, del ciclo della vita, di origini e di estinzione. L'avevo già sentito altre volte, e mi diceva che quel sacco conteneva qualcosa morto ormai da molto tempo.
Fa' che non sia un cane o un cervo, scongiurai, mentre scostavo i bordi dell'apertura. Le mani erano mosse da un tremito impercettibile che si propagò alla plastica. No, ho cambiato idea. Fa' che sia un cane o un cervo, invece.
Ryan, Bertrand e LaManche mi si strinsero intorno. Poirier, ancorato al suolo, era rimasto immobile.
Per prima vidi una scapola. Non era molto, ma mi permetteva di escludere che si trattasse di un animale domestico o del bottino di un cacciatore. Guardai Ryan. Gli angoli degli occhi tremavano lievemente, la mascella era contratta.
«Sono resti umani.»
La mano di Poirier schizzò verso la fronte in un ennesimo segno della croce.
Ryan prese il suo notes a spirale e lo aprì a una pagina nuova. «Allora, che cosa abbiamo?» mi domandò, la voce tagliente quanto la lama che avevo appena usato.
Spostai le ossa con cautela e procedetti a un primo inventario. «Costole... scapole... clavicole... vertebre... Sembra che tutto appartenga al torace.»
«Sterno», aggiunsi quando trovai l'osso del petto.
Continuai a frugare in mezzo alle ossa sotto gli sguardi silenziosi dei presenti. Raggiunto il fondo del sacco, un grande ragno bruno mi salì sulla mano e lungo il braccio. Le sue zampe pelose mi sfiorarono la pelle, leggere e delicate come un fazzoletto di pizzo. Aveva gli occhi sporgenti come minuscoli periscopi, quasi volesse indagare le cause di quella imprevista intrusione. Ritrassi la mano di scatto, scagliandolo lontano.
«È tutto», dissi mentre mi alzavo per sgranchirmi le gambe. Le ginocchia protestarono sonoramente. «La parte superiore del busto e niente arti.» Avevo la pelle d'oca, e non per colpa del ragno.
Abbandonai le braccia lungo i fianchi. La conferma delle mie intuizioni non mi dava alcuna gioia, ma solo un'opprimente sensazione di torpore, simile allo stato di shock. Non sentivo nessuna emozione. È successo un'altra volta, pensai. Un altro essere umano straziato. Là fuori c'è un mostro.
Ryan continuava a scarabocchiare sul suo notes, i tendini del collo sporgenti per la tensione.
«E adesso cosa si fa?» La voce di Poirier non era più forte di uno squittio.
«Adesso cerchiamo il resto», risposi.
Cambronne si stava preparando a scattare le sue fotografie quando sentimmo tornare Piquot. Naturalmente dal folto del bosco. Dopo che ci ebbe raggiunto, lanciò un'occhiata alle ossa e mormorò un'imprecazione.
Ryan si rivolse a Bertrand. «Ti occupi tu di questa zona mentre noi proseguiamo la ricerca con il cane?»
L'investigatore annuì, rigido come i pini che aveva intorno.
«Questa roba la portiamo via, così quelli della Scientifica possono lavorare con comodo. Ve li mando.»
Lasciammo Bertrand e Cambronne e seguimmo Piquot in direzione dei latrati. L'animale sembrava sull'orlo dello sfinimento.
Tre ore dopo sedevo su una striscia d'erba intenta a esaminare il contenuto di quattro sacchi mortuari. Il sole a picco mi bruciava le spalle ma non poteva nulla contro la morsa di gelo che mi attanagliava. A qualche metro da me il cane giaceva disteso accanto al suo addestratore, la testa adagiata fra le enormi zampe brune. Era stata una mattinata di grande soddisfazione per lui.
Istruiti a riconoscere l'odore dei tessuti decomposti o in via di decomposizione, i cani di questo tipo sono in grado di scovare i cadaveri, o di distinguerne l'odore dopo che il corpo è stato rimosso, con la stessa precisione con cui i raggi infrarossi riconoscono le fonti di calore. Sono i segugi dei morti. Quella mattina il nostro animale si era comportato molto bene e aveva individuato tre sacchi. A ogni ritrovamento annunciava il suo successo con grande partecipazione, abbaiando, balzando a destra e a sinistra e producendosi in una frenetica danza intorno alla zona interessata. Chissà se anche gli altri cani svolgevano il loro lavoro con altrettanta passione?
Le operazioni di scavo, identificazione e imballaggio dei resti si erano protratte per due ore. Avevo eseguito un inventario preliminare prima dell'estrazione dal terreno dei sacchi e in quel momento ne stavo eseguendo un secondo, più dettagliato, per poi registrare ogni singolo frammento osseo.
Guardai il cane. Sembrava distrutto, come me, e si limitava a muovere gli occhi tenendo la testa immobile.
Invidiai a quell'animale il suo diritto al riposo. Dopo un po' alzò la testa lasciando penzolare la lingua lunga e sottile dalla bocca. Feci in modo di non imitarlo e tornai al mio inventario.
«Quanti sono?»
Non l'avevo sentito avvicinarsi ma riconobbi subito la voce. Mi irrigidii.
«Bonjour, monsieur Claudel. Comment ça va?»
«Allora, quanti?» insistette.
«Uno», risposi, senza guardarlo.
«Manca niente?»
Terminai di scrivere e mi voltai. Stava scartando un sandwich comprato a un distributore automatico e mi osservava a gambe divaricate, la giacca abbandonata su un braccio.
Come Bertrand, quel giorno anche lui aveva optato per le fibre naturali: cotone per camicia e pantaloni, lino per la giacca. Quanto al colore, la scelta era caduta sui toni del verde, per un look più fresco. Unica nota frivola, la fantasia della cravatta, gradevolmente picchiettata di pennellate color mandarino.
«È già in grado di dire ciò che abbiamo?» mi domandò armeggiando con il panino.
«Sì.»
«Sì?»
Era lì da meno di trenta secondi e avevo già voglia di strappargli il sandwich di mano per cacciarglielo nel naso, o in un qualsiasi altro orifizio. Quell'uomo non tirava fuori il meglio di me quando ero tranquilla e rilassata, figuriamoci quando ero stanca e nervosa come in quel momento. Non avevo né la voglia né l'energia per rispondere alle sue provocazioni.
«Ciò che abbiamo è uno scheletro umano parziale. I tessuti molli mancano quasi del tutto. Il corpo è stato smembrato e chiuso in quattro sacchi per l'immondizia, sepolti in altrettanti punti all'interno di quell'area.» Indicai il terreno del monastero. «Il primo sacco l'ho trovato io la notte scorsa. Gli altri sono stati individuati dal cane questa mattina.»
Addentò il panino e guardò verso gli alberi.
«E che cosa manca?» mi chiese fra un morso e l'altro.
Lo fissai in silenzio, chiedendomi perché una domanda così innocua mi desse tanto fastidio. Non tardai a trovare la risposta: erano i suoi modi a irritarmi. Per una volta, tuttavia, cercai di cambiare atteggiamento. Ignoralo, Brennan. Claudel è fatto così. Da lui devi aspettarti solo superiorità e arroganza. Ormai gli avranno già raccontato tutto e quindi sa che avevi ragione tu. Ma non aspettarti che venga a dirti brava. Accontentati di sapere che si starà rodendo dalla rabbia e lascia perdere il resto.
Non avendo ricevuto risposta, mi ripeté la domanda.
«Manca qualcosa?»
«Sì.»
Posai il modulo per l'inventario dello scheletro e lo fissai dritto negli occhi. L'investigatore fece altrettanto, strizzando le palpebre e continuando a masticare. Ma perché non si procurava un paio di occhiali da sole?
«La testa.»
Smise di masticare. «Cosa?»
«Manca la testa.»
«E dov'è?»
«Monsieur Claudel, se sapessi dov'è non mancherebbe.»
Lo vidi contrarre la mascella per una frazione di secondo.
«Nient'altro?»
«Altro cosa?»
«Manca nient'altro?»
«Niente di significativo.»
Per un po' continuò a dedicarsi in silenzio al suo pranzo, come se stesse elaborando le informazioni ricevute. Quando ebbe finito, appallottolò la carta del sandwich e se la mise in tasca, quindi si pulì gli angoli della bocca con l'indice.
«Suppongo che non abbia altro da dirmi.» Un'affermazione più che una domanda.
«Quando avrò avuto il tempo di esaminare il...»
«Bene.» Si voltò e andò via.
Lo insultai fra me e me e chiusi la cerniera dei quattro sacchi mortuari. Udendo quel rumore, il cane rizzò la testa e mi seguì con lo sguardo mentre infilavo il supporto rigido con i moduli nello zaino. Mi spostai sull'altro lato della strada e comunicai a un inserviente dell'obitorio magro come un chiodo che poteva cominciare a caricare i resti.
In fondo alla via Ryan e Bertrand parlavano con Claudel e Charbonneau. La SQ incontrava la CUM. Istintivamente le loro chiacchiere mi insospettirono. Che cosa stava dicendo Claudel? Stava forse sparlando di me? Sapevo che i poliziotti in genere sono protettivi nei confronti del loro territorio e gelosi dei loro casi. Da questo punto di vista Claudel sicuramente era peggio di altri, ma ciò non giustificava comunque l'avversione che aveva per me.
Lascia perdere, Brennan. Quell'uomo è uno stronzo e tu lo stai mettendo in imbarazzo di fronte ai colleghi. Non puoi certo sperare di essere ai vertici della sua classifica personale. Smettila di pensare ai sentimenti e cerca di svolgere bene il tuo lavoro. E poi sei tu la prima a essere gelosa dei tuoi casi-Mi avvicinai e di colpo le chiacchiere cessarono. Quell'atteggiamento smorzò il mio entusiasmo e mi impedì di avvicinarmi nel modo cordiale che avevo previsto. Cercai comunque di mascherare il mio disagio.
«Ehi, dottoressa», mi salutò Charbonneau.
Annuii e gli rivolsi un sorriso.
«Allora, a che punto siamo?» domandai.
«Il suo capo se n'è andato circa un'ora fa. E anche il prete. La Scientifica ha quasi terminato», intervenne Ryan.
«Trovato qualcosa di interessante?»
Scosse la testa.
«E il metal detector non è servito a niente?»
«Sì, a farci recuperare gli anelli di tutte le lattine dello stato.» Ryan sembrava esasperato. «Ah, sì... anche un parchimetro. E lei a che punto è?»
«Ho finito. Ho detto all'inserviente di caricare tutto.»
«Claudel ci ha detto che manca la testa.»
«Infatti. Mancano il cranio, la mascella e quattro vertebre cervicali.»
«E questo significa...?»
«Che l'assassino ha decapitato la vittima e poi ha nascosto la testa da qualche parte. Potrebbe anche averla seppellita qui, come ha fatto con gli altri resti. Dopotuttto erano piuttosto sparpagliati.»
«Vuol dire che qui in giro c'è un altro sacco?»
«Possibile. Ma l'assassino potrebbe anche averlo buttato altrove.»
«E dove, per esempio?»
«Nel fiume, in un gabinetto, nella sua caldaia. Come diavolo faccio a saperlo?»
«E perché mai avrebbe dovuto farlo?» domandò Bertrand.
«Forse per non permettere l'identificazione del cadavere.»
«E secondo lei è successo questo?»
«Probabilmente no. Ma con i denti e la documentazione odontoiatrica identificare un corpo è mille volte più facile. Comunque ha lasciato le mani.»
«E allora?»
«Quando un cadavere viene mutilato per impedirne il riconoscimento in genere mancano anche le mani.»
Mi guardò senza capire.
«Le impronte possono essere prese anche su corpi in avanzato stato di decomposizione se esiste almeno una piccola porzione di pelle. A me per esempio è capitato di prendere le impronte di una mummia di cinquemila anni.»
«Ed è riuscita a identificarla?» si intromise Claudel con voce incolore.
«Il tizio non era schedato», risposi altrettanto piatta.
«Qui però abbiamo trovato solo delle ossa», disse Bertrand.
«Ma l'assassino non poteva prevedere quando il corpo sarebbe stato ritrovato.» Come per Gagnon, pensai. Solo che questo era sepolto.
Mi interruppi un istante e immaginai l'assassino insinuarsi furtivamente nel bosco per seppellire i sacchi e il loro macabro contenuto. Una ridda di domande affollò i miei pensieri. Aveva smembrato la vittima altrove, chiuso i brandelli insanguinati nei sacchi e poi caricato tutto in macchina per venire qui? Aveva parcheggiato fuori dal recinto, come avevo fatto io, oppure era riuscito a entrare in auto nella proprietà? Aveva prima scavato tutte le buche seguendo un ordine preciso oppure aveva sepolto un sacco alla volta scavando le buche a casaccio? Fare a pezzi il cadavere era stato un estremo tentativo di coprire un delitto passionale? Oppure omicidio e mutilazione erano stati premeditati con freddezza?
Infine considerai un'ultima ipotesi. E se la notte precedente l'assassino fosse stato lì, dov'ero io? Scacciai quel pensiero agghiacciante e tornai alla realtà.
«Oppure...»
Mi guardarono tutti.
«Oppure potrebbe averla ancora con sé.»
«Ancora con sé?» mi derise Claudel.
«Merda», disse Ryan.
«Come Dahmer?» domandò Charbonneau.
Scrollai le spalle.
«E meglio portare Zanna Bianca a fare un altro giretto», suggerì Ryan. «Non ha ancora perlustrato la zona dove abbiamo trovato il torace.»
«Bene», commentai. «Sarà contento.»
«Vi dà fastidio se veniamo a dare un'occhiata?» domandò Charbonneau. Claudel lo fulminò con lo sguardo.
«No, a patto che formuliate pensieri positivi», dissi io. «Vado a prendere il cane. Ci vediamo al cancello.»
Mentre mi allontanavo sentii la voce nasale di Claudel pronunciare la parola "cagna". Si riferiva certo all'animale, mi rassicurai.
Nel vedermi il cane si rizzò sulle zampe e cominciò a muovere leggermente la coda. Con uno sguardo chiese al suo addestratore il permesso di avvicinarsi. Stampato sulla tuta dell'agente lessi il nome De Salvo.
«Fido è pronto per un altro giro?» domandai, tendendo il palmo verso il cane. De Salvo fece un impercettibile cenno con la testa e il cane balzò in avanti tastandomi la mano con il nasone umido.
«Si chiama Margot», precisò, badando a pronunciare il nome con il corretto accento francese.
Aveva una voce bassa e uniforme, e si muoveva nel modo armonioso e rilassato di chi trascorre il suo tempo con gli animali. Il viso abbronzato era solcato da rughe profonde che disegnavano dei piccoli ventagli agli angoli degli occhi. Aveva l'aspetto sano di chi vive all'aria aperta.
«Inglese o francese?»
«È bilingue.»
«Ciao, Margot», la salutai, appoggiando un ginocchio a terra per darle una granatina dietro le orecchie. «Scusami se non ho capito subito che eri una femmina. Oggi è un gran giorno per te, vero?»
Margot cominciò a scodinzolare. Aspettò che fossi di nuovo in piedi poi fece un balzo all'indietro, un giro completo su se stessa e infine si bloccò di colpo mettendosi a studiare la mia faccia. Inclinava la testa, da un lato e poi dall'altro, arricciando e distendendo le grinze che aveva fra gli occhi.
«Tempe Brennan», mi presentai, offrendo la mano a De Salvo.
Assicurò un capo del guinzaglio alla cintura che aveva in vita, raccolse l'altro con una mano e mi tese quella rimasta libera. Era ruvida e forte, come il metallo grezzo. La sua stretta meritava senza dubbio un bel dieci.
«David De Salvo.»
«Pensiamo che laggiù potrebbe esserci qualcos'altro, Dave. Crede che Margot sia pronta per un altro giro?»
«La guardi.»
Udendo il suo nome la cagna drizzò le orecchie, si accucciò con il muso a terra e il posteriore in alto e poi, senza mai staccare gli occhi dal suo addestratore, si lanciò in avanti producendosi in una serie di piccoli balzi.
«Bene. Finora dove avete cercato?»
«Abbiamo setacciato tutta la proprietà in ogni direzione escluso il punto in cui stava lavorando lei.»
«È possibile che le sia sfuggito qualcosa?»
Scosse la testa. «No, non oggi, le condizioni sono perfette. La temperatura è ideale, il tempo è bello e la pioggia ha lasciato una certa umidità. Inoltre tira un po' di vento e Margot è in forma smagliante.»
L'animale gli diede un colpetto sul ginocchio con il naso conquistandosi qualche carezza.
«È difficile che le sfugga qualcosa. Ha imparato a fiutare solo l'odore dei cadaveri e quindi non c'è nient'altro che possa distrarla.»
Questi cani, come quelli che seguono le tracce, vengono addestrati a seguire odori specifici, nel loro caso l'odore della morte. Mi venne in mente una riunione dell'Accademia, durante la quale un relatore aveva portato campioni di odore di cadavere in bottiglia. Eau de putréfaction. Un addestratore di mia conoscenza, invece, utilizzava denti invecchiati in fiale di plastica che trovava presso un amico dentista.
«Margot è il cane migliore con cui ho lavorato. Se laggiù c'è ancora qualcosa lei lo troverà di sicuro.»
La guardai. Non feci fatica a credere a De Salvo.
«D'accordo. Allora portiamola sul luogo del primo ritrovamento.»
L'addestratore agganciò il capo libero del guinzaglio al collare poi Margot ci guidò fino al cancello, dove ci attendevano i quattro investigatori, e lungo la strada all'interno della proprietà. Annusava ovunque, esplorando fessure e anfratti con il muso, proprio come il fascio di luce della mia torcia. Di tanto in tanto si fermava, inspirava e subito espelleva l'aria sollevando un mulinello di foglie secche. Poi, soddisfatta, riprendeva la marcia.
Arrivati al punto in cui cominciava il sentiero ci fermammo.
«La zona che ci interessa è da quella parte.»
De Salvo indicò il luogo del nostro primo ritrovamento.
«Faremo un primo giro sottovento, così Margot può fiutare meglio. Se trova qualcosa può star certa che è la testa che state cercando.»
«Diamo fastidio se rimaniamo nei dintorni?» domandai.
«No. Il vostro odore non le crea nessun problema.»
Cane e addestratore proseguirono lungo la strada per una decina di metri poi scomparvero nel bosco; noi proseguimmo lungo il sentiero. L'andirivieni della giornata l'aveva reso più evidente, così come aveva trasformato il luogo dove avevo trovato il primo sacco in una piccola radura, lì la vegetazione era interamente calpestata e i rami più bassi spezzati.
Al centro, la buca, molto più grande di come l'avevamo lasciata e circondata di terra smossa, si presentava scura e vuota, simile a una tomba profanata. Accanto a uno dei lati si alzava un cono di terriccio tronco alla sommità, dalla consistenza innaturalmente uniforme, frutto del passaggio della Scientifica.
Meno di cinque minuti dopo sentimmo abbaiare.
«Il cane è dietro di noi?» domandò Claudel.
«La cagna», lo corressi.
Fece per dire qualcosa, poi ci ripensò. Una venuzza gli pulsava sulla tempia. Ryan mi lanciò un'occhiata. D'accordo, forse l'avevo provocato.
Continuammo a percorrere il sentiero in silenzio. Dal crepitio delle foglie capimmo che Margot e De Salvo erano alla nostra sinistra. Meno di un minuto e furono di nuovo in vista, Margot tesa come una corda di violino, i muscoli delle spalle rigonfi e il petto compresso contro i finimenti di pelle. Teneva la testa eretta, le narici fremevano nervose, e fiutava l'aria saettando in ogni direzione.
D'un tratto si irrigidì, le orecchie tese percorse da un tremore impercettibile, e dalle profondità del suo corpo sentimmo nascere un suono, debole prima e poi sempre più forte, simile alla litania funebre di un rito primordiale. L'intensità di quel mugolio mi procurò la pelle d'oca e mi sentii attraversare da un brivido di freddo.
De Salvo le si avvicinò e staccò il guinzaglio. Per un istante Margot rimase immobile, come per confermare la decisione e aggiustare la rotta. Infine scattò.
«Ma che cazzo...» Claudel.
«Dove diavolo...» Ryan.
«Accidenti!» Charbonneau.
Credevamo che avesse fiutato qualcosa nella zona alle nostre spalle e invece tagliò il sentiero e si addentrò nella macchia. Osservammo in silenzio.
Dopo appena due metri si fermò, abbassò il muso e inspirò più volte. Poi espirò con decisione, si spostò sulla sinistra e ripeté la manovra. Era tesa allo spasmo, ogni muscolo all'erta. Mentre la guardavo, alcune immagini mi sfilarono nella mente. Un volo nel buio. Una brutta caduta. La luce di un lampo. Una buca vuota.
Margot riconquistò la mia attenzione. Si era fermata alla base di un pino, concentrata con tutta se stessa sul terreno che aveva di fronte. Di nuovo abbassò il muso e inspirò. Poi, come ubbidendo a un istinto selvaggio, drizzò il pelo della schiena e contrasse i muscoli. Infine alzò la testa, emise un ultimo sbuffo d'aria e si lanciò in una danza frenetica, la coda fra le zampe, balzando avanti e indietro, ringhiando e cercando di mordere il terreno davanti a lei.
«Margot! Ici!»ordinò De Salvo, che si gettò in mezzo agli arbusti e l'afferrò dai finimenti per trascinarla lontano dalla fonte della sua agitazione.
Non avevo bisogno di guardare. Sapevo già che cosa aveva trovato. E che cosa invece non aveva trovato. Mi rividi fissare la terra asciutta e la buca vuota. Era stata scavata per seppellire o per dissotterrare, mi ero domandata. Ormai lo sapevo.
Margot continuava ad abbaiare e a ringhiare alla buca in cui ero caduta la notte precedente. Era ancora vuota ma il fiuto dell'animale mi aveva già rivelato il suo contenuto.
18
Spiaggia. Surf. Piovanelli che sgambettano sulle zampe sottili, pellicani che planano come aeroplanini di carta e poi si lasciano cadere in picchiata sull'acqua. Con la mente ero in Carolina. Sentivo il profumo dell'oceano, della sabbia bagnata, degli acquitrini leggermente salati dell'entroterra, dei pesci intrappolati sulla spiaggia, delle alghe essiccate. A nord Hatteras, Ocracoke e Bald Head. Pawley's, Sullivan's e Kiawah a sud. Volevo tornare a casa, poco importava su quale isola. Ero stanca di donne massacrate e di cadaveri fatti a pezzi, avevo solo voglia di palmette e di barconi per la pesca ai gamberi.
Aprii gli occhi sui piccioni che decoravano la statua di Norman Bethune. Il cielo perdeva il suo colore, e i gialli e i rosa dimenticati dal tramonto stavano capitolando sotto gli attacchi dell'incombente oscurità. I lampioni e le insegne dei negozi salutavano l'arrivo della sera con occhiolini al neon. Le auto procedevano su tre file, simili a un gregge motorizzato che a malincuore si separava all'altezza del triangolo di verde tra la Guy e il De Maison-neuve.
Condividevo una panchina con un uomo in tuta. Illuminati dalle macchine di passaggio, i suoi capelli scialbi formavano un alone simile alla lana di vetro. Gli occhi, cisposi e cerchiati di rosso, avevano il colore della tela jeans lavata mille volte. Al collo portava una catenina con un crocifisso di metallo grande quanto la mia mano e continuava a sfregarsi gli occhi con le dita pallide nel tentativo di liberarsi dalle crosticine giallastre.
Ero rientrata nel tardo pomeriggio, avevo inserito la segreteria telefonica e mi ero infilata a letto. Nel sonno, fantasmi di persone conosciute si erano alternati a figure ignote in una sfilata a tema libero. Ryan inseguiva Gabby fin dentro una casa di legno. Pete e Claudel scavavano una buca nel mio giardino. Katy, sdraiata su un sacco di plastica marrone sulla terrazza della casa al mare, rifiutava di mettersi la crema solare, incurante del sole che le bruciava la pelle. Una figura minacciosa mi inseguiva di soppiatto sul Saint-Laurent.
Mi svegliai diverse volte e alle otto finii per alzarmi, affamata e con la testa dolorante. Sulla parete vicino al telefono lampeggiava un riflesso. Rosso, rosso, rosso. Pausa. Rosso, rosso, rosso. Pausa. Tre messaggi. Mi precipitai alla segreteria e feci partire il nastro.
Pete stava valutando un'offerta di lavoro presso uno studio legale di San Diego. Straordinario. Katy pensava di lasciar perdere la scuola. Meraviglioso. Il terzo messaggio era vuoto. Almeno non erano cattive notizie. Gabby continuava a non farsi sentire. Fantastico.
Venti minuti di chiacchiere con Katy non mi avevano aiutata a rilassarmi. Era stata educata e non si era sbilanciata troppo, quindi mi aveva salutata con un lungo silenzio seguito da un: «Ci sentiamo più tardi». Tu-tuu. Immobile, a occhi chiusi, avevo ripensato a Katy bambina. L'avevo rivista a tredici anni, abbracciata guancia a guancia al suo cavallo appaloosa, i capelli biondi che contrastavano con la criniera bruna. Pete e io eravamo andati a trovarla al campeggio; nel vederci il viso le si era infiammato di gioia e mi era corsa incontro dimenticandosi il cavallo. Eravamo così unite, allora. Dov'era finita la nostra intimità? Perché non era felice? Perché voleva lasciare la scuola? Era stata colpa mia e di Pete, della nostra separazione?
Irritata dalla mia inadeguatezza di madre, avevo provato a chiamare Gabby a casa. Nessuna risposta. Avevo ripensato a quando era sparita per dieci giorni, facendomi impazzire per la preoccupazione. E poi avevo saputo che era stata in ritiro spirituale a meditare. Forse non la trovavo perché era andata di nuovo a ritrovare se stessa.
Due Tylenol mi avevano dato un po' di sollievo dal mal di testa e un 4 Special al Singapore aveva calmato i morsi della fame. Tuttavia niente pareva poter mettere a tacere la mia insoddisfazione. Neppure i piccioni, o il mio vicino di panchina, riuscivano a liberarmi da quel chiodo fisso. Le domande mi rimbalzavano nella mente come palline in un flipper. Chi era questo assassino? Come sceglieva le sue vittime? Le conosceva già, oppure cercava di guadagnarsi la loro fiducia per poi introdursi nelle loro case? Margaret Adkins era stata uccisa nella sua abitazione. E Chantale Trottier e Isabelle Gagnon, invece, dov'erano morte? Forse in un luogo prestabilito, scelto apposta per ucciderle e farle a pezzi? Come si muoveva questo assassino? Era forse Saint-Jacques?
Fissai lo sguardo sui piccioni, in realtà senza vederli. Immaginai le vittime, immaginai la loro paura. Chantale Trottier aveva solo sedici anni. Era stata minacciata con il coltello? A che punto aveva capito che sarebbe morta? Lo aveva implorato di non farle del male? Lo aveva scongiurato di non ucciderla? Rividi un'altra immagine di Katy, di tante altre Katy come lei, e il mio coinvolgimento emotivo sfiorò il dolore fisico.
Cercai di concentrarmi sul presente. Dovevo lavorare sulle ossa recuperate, sentire Claudel, occuparmi della ferita che avevo sul viso. Dunque Katy aspirava a una carriera di groupie al seguito delle squadre dell'NBA, e niente di ciò che le avevo detto aveva potuto dissuaderla. Pete invece stava per andare in California. Quanto a me, ero più arrapata di un marinaio in navigazione e senza nessuna prospettiva in vista. E Gabby? Dove diavolo era finita quella donna?
«Questo è quanto», conclusi a voce alta facendo sobbalzare i piccioni e l'uomo seduto accanto a me. In realtà c'era una cosa che potevo fare.
Tornai a casa a piedi, entrai direttamente nel garage e presi la macchina. Arrivata in Carré Saint-Louis parcheggiai sulla Henry-Julien e mi diressi verso l'appartamento di Gabby. L'edificio dove abitava a volte mi faceva pensare alla casa di Barbie; quella sera invece mi fece venire in mente Lewis Carroll. Riuscii quasi a sorridere.
Un'unica lampadina rischiarava il portico color lavanda illuminando appena le petunie lungo il parapetto. Le finestre mi fissavano buie. «Alice non è qui», dicevano.
Suonai il campanello del numero 3. Niente. Suonai ancora. Silenzio. Provai al numero 1, poi al 2 e al 4. Nessuna risposta. Il Paese delle Meraviglie aveva chiuso per la notte.
Feci il giro del parco sperando di trovare l'auto di Gabby. Non c'era. Senza pensarci due volte, tornai alla macchina e puntai verso la Main.
Dopo venti minuti trascorsi alla disperata ricerca di un parcheggio, decisi di lasciare la Mazda in uno dei vicoli sterrati che davano sul Saint-Laurent. Fra gli elementi distintivi, il tanfo dell'orina stantia, il numero delle lattine di birra schiacciate e i cumuli di immondizia, oltre al suono di un juke-box che proveniva da un muro sulla sinistra. Niente più di quello scenario poté convincermi della necessità di un antifurto per auto. In attesa di procurarmelo, raccomandai la Mazda al dio dei parcheggi e mi unii alla folla sulla strip.
Nella Main vivono due gruppi complementari di abitanti che, come succede nella foresta equatoriale, vivono fianco a fianco ma occupano habitat differenti: una comunità è attiva di giorno, l'altra esclusivamente di notte.
Dall'alba al tramonto è il regno dei negozianti e degli addetti alle consegne, dei bambini che vanno a scuola e delle casalinghe. I rumori sono quelli del commercio e del gioco, gli odori parlano di cibo e di pulizia: pesce fresco da Walman's, carne affumicata da Schwartz's, mele e fragole da Warshaw's, pane e dolci alla Boulangerie Polonaise.
Ma quando si accendono i primi lampioni e le insegne dei caffè, quando i negozi abbassano la saracinesca e i locali notturni e le fabbriche del porno aprono i battenti, il gruppo diurno cede il marciapiede a tutt'altro genere di soggetti. Alcuni sono innocui: turisti e studenti di college in cerca di una sbronza e di un brivido a buon mercato; altri più insidiosi: protettori, spacciatori, prostitute e fumatori di crack. Sono un popolo di sfruttatori e sfruttati, di cacciatori e prede indissolubilmente uniti in una catena alimentare della miseria umana.
Alle undici e un quarto il turno di notte era in piena attività. Le strade erano affollate di gente e i bar e i bistrot di infimo ordine erano al completo. Camminai fino all'angolo con la Sainte-Catherine e mi fermai davanti alla Belle Province. Pareva il posto ideale per cominciare. Entrando, superai il telefono da cui Gabby mi aveva chiamato in preda al panico.
Il ristorante puzzava di disinfettante, di grasso e di cipolle bruciate. Era troppo tardi per cenare e troppo presto per lo spuntino del doposbronza. I divanetti occupati erano solo quattro.
Il primo ospitava una coppia di ragazzi coperti di borchie con identiche acconciature da moicano. Si guardavano cupamente negli occhi da sopra due piatti di chili semivuoti, le creste appuntite dello stesso nero inchiostro, quasi avessero pagato a metà il flacone della tintura.
In un divanetto al fondo del locale una donna fumava e sorseggiava un caffè esibendo capelli cotonati color platino e braccia sottili quanto una matita. Indossava un top rosso scollato all'americana e quelli che ai tempi di mia madre si chiamavano pantaloni alla pescatora. Probabilmente si vestiva così da quando aveva lasciato la scuola per partecipare allo sforzo bellico.
Mentre la guardavo bevve l'ultimo sorso di caffè, tirò una lunga boccata di fumo e spense il mozzicone nel piccolo disco di metallo che fungeva da posacenere. Gli occhi bistrati scrutavano la sala con languida indifferenza, senza cercare nulla ma pronti a rispondere al minimo cenno di invito. Dipinta sul viso, l'espressione senza gioia di chi era stata a lungo sulla strada e, forse non più in grado di competere con le giovani, si era specializzata in sveltine nei vicoli e fellatio sui sedili posteriori. Eccitazioni notturne a prezzo di realizzo. Si aggiustò il top sul petto ossuto, raccolse lo scontrino e si avvicinò al banco.
Un divanetto vicino alla porta era occupato da tre ragazzi. Uno di loro, accasciato sul tavolo, si reggeva la testa con una mano lasciandosi penzolare l'altra in grembo. Tutti e tre indossavano magliette, jeans tagliati al ginocchio e berretti da baseball. Incurante della moda, uno solo portava la visiera ben calcata sulla fronte e non girata verso il collo. I due che ancora resistevano in posizione eretta stavano ingurgitando un cheeseburger, apparentemente disinteressati all'amico. Dovevano avere circa sedici anni.
Nell'ultimo divanetto sedeva una suora. Di Gabby nessuna traccia.
Lasciai il ristorante e perlustrai la Sainte-Catherine in entrambi i sensi. Verso est le gang dei motociclisti cominciavano ad affollare i due lati della strada con le Harley e le Yamaha. Stivali e pelle nera nonostante la serata tiepida, bevevano e parlavano in sella alle moto o riuniti a gruppetti.
Le loro compagne sedevano alle loro spalle oppure chiacchieravano in capannelli appartati. Mi ricordarono me e le mie compagne ai tempi del liceo. Queste donne, però, avevano scelto un mondo di violenza e di sottomissione, in cui le femmine del branco venivano raggruppate e sorvegliate, talvolta addirittura scambiate e messe sulla strada, tatuate e seviziate, picchiate e uccise. Eppure rimanevano. Se questa era la vita che si erano scelte, è difficile immaginare quale inferno si fossero lasciate alle spalle.
Mi spostai quindi a ovest del Saint-Laurent. D'un tratto vidi ciò che stavo cercando. Due prostitute si intrattenevano davanti al Granada, fumando e ammiccando ai passanti. Riconobbi Poirette, ma non la sua collega.
Mi sforzai di resistere alla tentazione di lasciar perdere e di tornare a casa. E se avevo sbagliato abbigliamento? Avevo deciso di indossare una felpa, jeans e un paio di sandali sperando di apparire poco minacciosa, ma cominciavo a dubitare della mia scelta. In effetti non ero affatto pratica di quel genere di lavoro sul campo.
Smettila con queste stronzate, Brennan. Stai perdendo tempo. Muovi il culo e vai da loro. Il peggio che ti può capitare è di essere allontanata in malo modo. Ma non sarebbe la prima volta.
Risalii l'isolato e mi fermai di fronte alle due donne.
«Bonjour.» La mia voce suonò stridula, come un nastro in riavvolgimento. Mi sentivo a disagio e diedi qualche colpo di tosse per camuffare il mio stato d'animo.
Le donne smisero di parlare e presero a ispezionarmi, come si fa con un insetto sconosciuto o con un corpo estraneo trovato nelle narici. Nessuna delle due parlò, le facce inespressive e prive di qualsiasi emozione.
Poirette spostò il peso su una gamba e sporse un fianco. Portava le stesse scarpe da ginnastica nere di quando l'avevo vista la prima volta. Mi guardò con lo sguardo appannato, cingendosi la vita con un braccio e appoggiandovi il gomito di quello opposto. Tirava lunghe boccate di fumo, poi espirava lentamente sporgendo il labbro inferiore. Sopra di lei, i bagliori dell'insegna al neon dell'hotel, avvolti in una cortina di fumo, le disegnavano sulla pelle di cacao una ragnatela di riflessi rossi e blu. Senza una parola, distolse gli occhi neri dalla mia faccia e tornò a posarli sulla folla che sfilava sul marciapiede.
«Che vuoi, chérie?»
La voce dell'altra donna suonò aspra e profonda, come se ai suoni che emetteva si intercalassero degli spazi vuoti. Mi si rivolse in inglese, con una cadenza che raccontava di acquitrini, di giacinti d'acqua, di piatti di gumbo, di musica zydecko e di cicale che frinivano nelle tiepide serate estive. Era più vecchia di Poirette.
«Sono un'amica di Gabrielle Macaulay. La sto cercando.»
Scosse la testa. Non la conosceva o non voleva rispondere?
«E un'antropologa... lavora da queste parti...»
«Ma certo, carina, lavoriamo tutte da queste parti.»
Poirette ebbe un gesto d'insofferenza e cambiò piede d'appoggio. La osservai. Indossava un paio di pantaloncini e un bustino lucido di plastica nera. Ero sicura che conoscesse Gabby, lei era una delle ragazze che avevamo visto insieme quella sera, me l'aveva indicata lei. Da vicino sembrava ancora più giovane. Tornai a concentrarmi sulla sua collega.
«Gabby è una donna piuttosto robusta», continuai, «ha circa la mia età, i capelli...» cercai la parola giusta, «... rossicci, con i dreadlock.»
Totale indifferenza.
«E un anellino al naso.»
Avevo la sensazione di parlare al muro.
«È da un po' di tempo che non riesco a parlarle. Penso che abbia il telefono rotto e sono un po' preoccupata. Sono sicura che tutte voi la conoscete.»
Cercai di allungare le vocali e di enfatizzare la cadenza del Sud. Stavo facendo appello alla solidarietà regionale. Figlie del Sud unitevi.
La donna fece spallucce, mostrandomi una versione rivisitata in stile Louisiana della tradizionale risposta francese. Più spallucce, meno mani sollevate.
Il mio appello non ottenne l'effetto sperato. Di quel passo non sarei arrivata molto lontano. Cominciai a capire che cosa voleva dire Gabby: non si fanno domande sulla Main.
«Se vi capita di vederla, ditele che Tempe la sta cercando.»
«E ti sembra un nome del Sud, questo, chérie?»
Si infilò un'unghia rossa e lunghissima fra i capelli e si grattò la testa. L'acconciatura era così impregnata di lacca - probabilmente non avrebbe ceduto neanche durante un uragano - che i capelli ondeggiarono come una massa unica, dando l'illusione che fosse la testa a cambiare forma.
«Be', non esattamente. Sapresti dirmi in quale altro posto potrei cercarla?»
Ancora spallucce. E poi ispezione dell'unghia.
Presi un biglietto da visita dalla tasca.
«Se ti viene in mente qualcosa mi puoi trovare qui.» Mi allontanai, e con la coda dell'occhio vidi Poirette posare lo sguardo sul mio biglietto.
I miei tentativi con le altre passeggiatrici della Sainte-Catherine sortirono più o meno gli stessi risultati. Le loro reazioni oscillavano fra l'indifferenza e il disprezzo, ed erano uniformemente permeate di diffidenza e sospetto. Nessuna informazione. Ammesso che Gabby fosse mai passata da queste parti, nessuno sembrava intenzionato ad ammetterlo.
Feci il giro di tutti i locali, di tutti gli squallidi ritrovi degli abitanti della notte. Ognuno era come il precedente, soffitti bassi e muri in calcestruzzo, interni che alternavano colori fosforescenti a rivestimenti di finto bambù o di legno a buon mercato, frutto dell'immaginazione distorta di un unico architetto. Bui e umidi, vi aleggiava un tanfo stantio di fumo, birra e sudore. Nel migliore dei casi si poteva sperare in pavimenti asciutti e gabinetti tollerabili.
In alcuni le spogliarelliste si contorcevano sui cubi, le facce pietrificate nella noia, i denti e i perizomi violetti sotto i guizzi delle luci. A seguire le loro acrobazie uomini in canottiera con la barba lunga impegnati a tracannare fiumi di birra. Imitazioni di donne eleganti si intrattenevano sorseggiando vino da poco o coccolando bibite analcoliche che cercavano di far passare per whisky e soda. Si animavano solo per sorridere agli uomini di passaggio nella speranza di rimediare un incontro, illudendosi di essere seducenti ma riuscendo solo a sembrare stanche.
Agli estremi temporali di questo mercato della carne c'erano le donne più tristi, quelle all'inizio e alla fine dell'attività. Ragazze dolorosamente giovani, che ancora esibivano i colori della pubertà, capitate lì per divertirsi e per fare un po' di soldi, o per sfuggire all'inferno privato della vita famigliare. Le loro storie avevano tutte un punto in comune: battere il marciapiede lo stretto indispensabile e poi tornare a una vita rispettabile. In fuga o in cerca di avventure, viaggiavano in pullman da Sainte-Thérèse e da Val d'Or, da Valleyfield e da Pointe-du-Lac. Arrivavano con i capelli lucenti e il viso fresco, sicure della loro immortalità, certe della loro capacità di dominare il futuro. Per tutte l'erba e la coca erano solo uno scherzo. Nessuna le riconosceva come il primo gradino della scala della disperazione e finivano sempre per trovarsi troppo in alto per scendere senza lasciarsi cadere.
Poi c'era chi era riuscita a invecchiare. Solo quelle davvero furbe o straordinariamente forti avevano fatto fortuna e se n'erano andate; quelle deboli e malate erano morte. Quelle forti ma prive di volontà cercavano di resistere, consapevoli del loro destino. Sarebbero morte sulla strada perché non conoscevano altro, o perché amavano o temevano un uomo al punto da vendere se stesse per comprargli una dose, o ancora perché avevano bisogno di qualcosa da mangiare e di un posto per dormire.
Mi rivolgevo a quelle appena entrate o appena uscite dal giro, evitando la generazione di mezzo, quella delle donne indurite dalla vita di strada e ancora in grado di amministrarsi il territorio, proprio come il loro protettore amministrava le loro vite. Immaginavo che forse le più giovani, ingenue e provocatorie, oppure quelle ormai vecchie, distrutte dalla vita di strada, sarebbero state più disponibili. Ma mi sbagliavo. Locale dopo locale, tutte mi giravano le spalle lasciando che le mie domande si perdessero nell'aria fumosa. Il codice del silenzio non ammetteva deroghe. Vietato l'accesso agli estranei.
Alle tre e un quarto ne avevo avuto abbastanza. Capelli e vestiti puzzavano di fumo e di spinelli, le scarpe erano fradice di birra. Mi ero scolata una quantità di Sprite sufficiente a irrigare il Kalahari e avevo gli occhi che si chiudevano. Mi lasciai alle spalle un ennesimo spostato in un ennesimo bar e mi ritirai in buon ordine.
19
L'aria aveva la consistenza della rugiada. Dal fiume si era alzata un po' di foschia che il bagliore dei lampioni scomponeva in minuscole goccioline e che regalava alla mia pelle una piacevole sensazione di fresco e di umidità. A giudicare dalle fitte di dolore fra il collo e la scapola intuii di essere rimasta tesa per ore, all'erta e pronta a scattare. Forse era così, anche se io sapevo bene che la ricerca di Gabby era solo una delle ragioni di quella tensione. Dopo i primi contatti, infatti, avvicinare le prostitute era diventata una routine, come pure incassare i loro rifiuti e schivare d'istinto i passanti in cerca di sesso o di una palpata.
Era stata la lotta che si consumava dentro di me a sfinirmi. Avevo combattuto per quattro ore contro un vecchio amante, un amante di cui non mi sarei mai liberata. Per tutta la notte avevo dovuto resistere alla tentazione, che assumeva i toni castagna dello scotch che scintillava sul ghiaccio, o quelli ambrati della birra che dalle bottiglie scendeva direttamente nella gola degli avventori. Avevo ritrovato il profumo del mio innamorato e rivisto la sua luce negli occhi delle persone che avevo intorno. Una volta lo amavo. Al diavolo, Brennan. Lo amavo ancora. Ma il nostro era stato un idillio devastante. E sapevo che al minimo cedimento la passione sarebbe rinata, e avrei perso il controllo. Così avevo deciso di allontanarmi da lui, lentamente, con dodici lunghi passi. E non ero più tornata indietro. Essendo stati amanti, non potevamo più tornare a essere amici. Ma quella notte stavamo per ritrovarci di nuovo l'una fra le braccia dell'altro.
Respirai profondamente, l'aria un misto di olio di macchina, cemento bagnato e lieviti della birreria Molson. La Sainte-Catherine ormai era quasi deserta. Un vecchio con parka e cuffia di lana sonnecchiava contro una vetrina in compagnia del suo bastardino malandato; un altro rovistava nell'immondizia sul marciapiede opposto. Forse sulla Main esisteva un terzo turno.
Scoraggiata ed esausta, mi diressi verso il Saint-Laurent. Ci avevo provato. E avevo capito che se anche Gabby fosse stata nei guai, questa gente non mi avrebbe aiutata a trovarla. Era un club più esclusivo del Rotary.
Passai davanti a My Kinh. Sopra la vetrina un'insegna prometteva CUISINE VIETNAMIENNE, cucina vietnamita, per tutta la notte. Diedi uno sguardo distratto attraverso il vetro sudicio, e mi fermai. Seduta su un divanetto in fondo al locale avevo visto la collega di Poirette, i capelli ancora cotonati in una pagoda color albicocca. La guardai per un istante.
Intingeva in una salsa rosso ciliegia un panino imbottito con un uovo fritto, poi lo portava alla bocca e lo leccava, quindi passava a ispezionarlo; infine ne abbassava leggermente l'involucro con i denti davanti e ricominciava l'intero rituale da capo, senza nessuna fretta. Mi domandai da quanto tempo si stesse dedicando a quell'attività.
Non entro. Sì, invece. È troppo tardi. Al diavolo. L'ultimo tentativo. Spinsi la porta e mi ritrovai nel locale.
«Salve.»
Al suono della mia voce la sua mano ebbe un sussulto. Subito sembrò stupita, poi, avendomi riconosciuta, parve quasi sollevata.
«Salve, chérie. Ancora in giro?» Tornò a occuparsi del panino.
«Posso sedermi?»
«Accomodati. Questo non è il mio territorio, carina. E non mi hai fatto nessun torto.»
Mi lasciai scivolare sul divanetto. Era più vecchia di quanto pensassi: oltre i trentacinque, forse oltre i quaranta. La pelle del collo e della fronte era ancora tesa e sotto gli occhi non vedevo traccia di borse, ma la luce impietosa del neon evidenziava un ventaglio di rughette sul contorno delle labbra e un lieve rilassamento delle guance.
Il cameriere mi portò un menù e ordinai una zuppa tonchinese. Non avevo fame ma mi serviva una scusa per rimanere.
«Trovato la tua amica, chérie?»Sollevò la tazza di caffè e i braccialetti di plastica scivolarono lungo l'avambraccio. Notai all'interno del gomito una serie di cicatrici grigiastre.
«No.»
Un ragazzo asiatico portò dell'acqua e una tovaglietta di carta. Avrà avuto quindici anni.
«Sono Tempe Brennan.»
«Mi ricordo. Jewel Tambeaux vende la passerina per strada, tesoro, ma non è stupida.» Leccata al panino.
«Signora Tambeaux, io...»
«Puoi chiamarmi Jewel, piccola.»
«Senti Jewel, ho passato quattro ore a cercare di scoprire se un'amica si è cacciata nei guai, e non sono neppure riuscita a sapere se qualcuno l'ha mai sentita nominare. Gabby lavora qui da anni e sono sicura che tutti sanno di chi sto parlando.»
«Forse lo sanno, chérie, ma non sanno perché glielo chiedi.» Appoggiò il panino sul tavolo e bevve un sorso di caffè producendo un lieve gorgoglio.
«Ti ho dato il mio biglietto da visita. Mi sembra evidente che non sto cercando di fregare nessuno.»
Per un istante mi guardò con durezza. Lo spazio che ci separava era impregnato del suo odore, un misto di fumo, profumo di drogheria e capelli sporchi. Il collo del top era macchiato di fondotinta.
«Ma tu chi sei, miss persona-con-un-biglietto-da-visita-che-dice-Tempe-Brennan? Una piedipiatti? Una che si è ficcata in qualche giro strano? O forse hai qualche conto da regolare?» Mentre parlava aveva sollevato uno degli artigli rossi dalla tazza e lo puntava contro di me, sottolineando ogni possibilità.
«Ti sembro una persona che potrebbe nuocere a Gabby?»
«Tutto quello che la gente sa di te, chérie, è che ti presenti da queste parti con una felpa dei Charlotte Hornets e un paio di sandali da yuppy, e vai in giro a fare un sacco di domande facendo del tuo meglio per rompere le palle. Non sei qui a battere e non spacci crack. La gente non sa come inquadrarti.»
Il cameriere arrivò con la mia zuppa e la condii con succo di limone e peperoncino rosso macinato. In silenzio cominciai a mangiare e intanto osservavo Jewel sbocconcellare il suo panino. Decisi di giocare la carta dell'umiltà.
«Immagino di aver sbagliato tutto, questa sera.»
Alzò gli occhi nocciola su di me e notai che una delle ciglia finte si era staccata incurvandosi sopra la palpebra. Riabbassò lo sguardo, posò quel che restava del panino e fece scivolare la tazza davanti a sé.
«Hai ragione, Jewel, non avrei dovuto aggredire le persone con tutte quelle domande. Ma sono molto preoccupata per Gabby. Le ho telefonato. L'ho aspettata fuori casa. L'ho cercata all'università. Nessuno sembra sapere dove sia. Non è da lei comportarsi così.»
Presi una cucchiaiata di zuppa. Era migliore di quanto mi aspettassi.
«Che cosa fa la tua amica Gabby?»
«È un'antropologa. Si interessa alle persone. Studia come si vive da queste parti.»
«Per caso vuole scrivere Adolescenza sulla Main?»
Rise da sola, attenta a come reagivo alla citazione di Margaret Mead. Non reagii in nessun modo, e cominciai a rendermi conto che, come mi aveva anticipato lei stessa, quella donna non era affatto stupida. Sentivo che mi stava mettendo sotto esame.
«Forse per il momento non vuole essere trovata.»
Potete aprire il foglio della prova.
«Forse.»
«Allora qual è il problema?»
Potete prendere la matita.
«L'ultima volta che l'ho vista sembrava molto preoccupata. Direi quasi spaventata.»
«Preoccupata per cosa, carina?»
Pronti.
«Credeva che un tizio la stesse seguendo. Un tipo strano, aveva detto.»
«Da queste parti ci sono molti tipi strani, chérie.»
Bene, adesso potete cominciare.
Le raccontai tutta la storia. Mi ascoltava facendo roteare la tazza e scrutando il deposito di caffè. Non smise neppure dopo che ebbi finito, come se stesse ancora decidendo il voto che meritavo. Poi fece un cenno per avere dell'altro caffè, mentre io aspettavo di conoscere l'esito del mio esame.
«Non so come si chiama, ma quasi sicuramente so di chi stai parlando. È un tizio pelle e ossa, ha la personalità di un verme. In effetti è strano, e qualunque sia il suo problema, non è roba da poco. Ma non penso che sia pericoloso. Dubito che abbia abbastanza cervello per leggere l'etichetta di una bottiglia di ketchup.»
Saltai il turno.
«Noi lo evitiamo quasi tutte.»
«Perché?»
«Ti riferisco semplicemente le voci che circolano in strada, perché io in realtà non ho mai avuto niente a che fare con lui. Quel tizio mi fa accapponare la pelle solo a vederlo.» Fece una smorfia e scrollò le spalle. «Pare che faccia delle richieste un po' particolari.»
«Particolari?»
Appoggiò la tazza sul tavolo e mi guardò pensierosa.
«E uno che ti paga per scopare ma poi non vuole farlo.»
Presi un cucchiaio di zuppa e aspettai che continuasse.
«C'è una ragazza che si chiama Julie che va con lui. È l'unica. E infatti è stupida come una capra, ma questa è un'altra storia. Insomma, pare che tutte le volte succeda la stessa cosa: vanno nella stanza e l'amico tira fuori da una borsa di carta una camicia da notte molto semplice, niente pizzi o cose esagerate. Gliela fa mettere e poi le dice di sdraiarsi sul letto. D'accordo, fin qui niente di difficile. Poi con una mano comincia ad accarezzare la camicia da notte e con l'altra si tocca l'uccello. Quasi subito gli si rizza e lui viene fra gemiti e rantoli, neanche stesse facendo chissà che cosa. Quando ha finito le fa togliere la camicia, la ringrazia, paga e se ne va. Julie dice che è denaro facile.»
«Perché pensi che sia questo l'uomo che spaventa la mia amica?»
«Perché una volta il tipo stava rimettendo la camicia nella borsa e Julie ha visto il manico di un vecchio coltellaccio. Allora lei gli fa: "Se vuoi ancora venire con me, bello mio, il coltello te lo devi scordare". E lui comincia a blaterare che quella è la spada della giustizia, e altre storie sull'anima, su quel coltello e sull'equilibrio naturale, insomma, cazzate del genere. Morale: Julie se l'è fatta sotto.»
«E poi?»
Scrollata di spalle.
«Si vede ancora in giro?»
«È da un po' che non lo vedo, ma questo non significa molto. Non è uno regolare. Lui va e viene.»
«Tu gli hai mai parlato?»
«Ma tesoro, gli abbiamo parlato tutte. Quando è in giro non riesci più a scrollartelo di dosso. Ecco perché so che ha la personalità di una blatta.»
«L'ha mai visto con Gabby?» Mangiai ancora un po' di zuppa.
Si appoggiò allo schienale e si mise ridere. «Bella mossa, carina.»
«Dove lo posso trovare?»
«Che diavolo ne so. Aspetta e vedrai che prima o poi ricompare.»
«E che mi dici di Julie?»
«Da queste parti il mercato è libero, chérie, la gente viene e va. Credi che tenga uno schedario?»
«L'hai vista di recente?»
Ci pensò qualche istante. «Non ne sono sicura.»
Abbassai lo sguardo sul piatto e cercai di capire l'atteggiamento di Jewel. Ero riuscita a sollevare leggermente il coperchio e lei mi aveva concesso di dare una sbirciatina. Potevo insistere ancora un po'? Decisi di tentare.
«Potrebbe esserci un serial killer in giro, Jewel. Qualcuno che uccide le donne e poi le fa a pezzi.»
Non cambiò espressione e si limitò a guardarmi, impassibile come una sfinge. O non aveva capito, oppure era ormai insensibile a qualsiasi idea di violenza e di dolore, forse anche di morte. Oppure indossava una maschera con cui nascondeva una paura troppo vera per essere comunicata a parole. Sospettavo che si trattasse di questo.
«Jewel, la mia amica è in pericolo?»
Ci guardammo dritte negli occhi.
«È una donna, chérie?»
Rientrai a casa guidando distrattamente e lasciando i pensieri liberi di vagare. Il De Maisonneuve era deserto e i semafori erano rimasti senza utenti. D'un tratto un paio di luci di posizione comparvero nello specchietto retrovisore e mi si incollarono addosso.
Oltrepassai la Peel e accostai a destra per farmi superare. Le luci mi seguirono. Mi rimisi sulla corsia di marcia e l'altra auto fece altrettanto alzando gli abbaglianti.
«Stronzo.»
Accelerai. Mi stava attaccato al paraurti.
Fitta di paura. Forse non era solo un ubriaco. Lanciai un'occhiata allo specchietto per cercare di capire chi fosse, ma non riuscii a distinguere altro che una sagoma. Sembrava piuttosto grande. Un uomo? Non avrei saputo dire. Ero abbagliata dalle luci e la macchina non era riconoscibile.
Le mani strette al volante, attraversai la Guy e svoltai a sinistra, incurante dei semafori rossi, poi imboccai la mia via e mi infilai nel sottopassaggio che porta al garage del mio condominio.
Aspettai fino a che la porta elettrica non si fosse richiusa, poi schizzai fuori dall'auto, chiavi in mano e orecchie spalancate, attenta al minimo rumore di passi. Nessuno mi stava seguendo. Mentre attraversavo l'atrio del primo piano, sbirciai attraverso le tende. Un'auto con le luci accese era ferma accanto al marciapiede, sul lato opposto della strada, il conducente un profilo scuro nella penombra che precede l'alba. Era la stessa auto? Non ne ero certa. Stavo dando i numeri?
Mezz'ora dopo fissavo il nero della notte stemperarsi nelle prime luci del giorno, oltre i vetri della finestra. Birdie faceva le fusa accoccolato fra le mie ginocchia. Ero così esausta che mi ero giusto svestita e poi ero crollata a letto, saltando tutti i preliminari. Mi accadeva di rado. In genere non vado mai a dormire senza struccarmi e lavarmi i denti. Ma per quella volta avevo fatto un'eccezione.
20
Il giorno seguente, mercoledì, continuai a dormire fino a tardi nonostante il rumore del camion dei rifiuti, nonostante le proteste di Birdie, nonostante tre telefonate.
Mi alzai alle dieci e un quarto, intorpidita e con la testa dolente. Decisamente non avevo più vent'anni e gli strascichi di una notte in bianco si facevano sentire. Doverlo ammettere era irritante.
Mi sentivo immersa nella puzza di fumo, capelli, pelle, persino cuscino e lenzuola. Feci un fagotto degli indumenti e li cacciai in lavatrice, quindi mi concessi una lunga doccia. Stavo già spalmando burro di noccioline su un croissant del giorno prima, quando squillò il telefono.
«Temperance?» LaManche.
«Sì?»
«Ho cercato di chiamarla questa mattina.»
Lanciai un'occhiata alla segreteria telefonica. Tre messaggi.
«Mi scusi.»
«Oui. Ci vedremo oggi, vero? Monsieur Ryan ha già telefonato.»
«Sarò là nel giro di un'ora.»
«Bon.»
Ascoltai i messaggi. Un laureando disperato. LaManche. Un messaggio vuoto. Non ero dell'umore per occuparmi dei problemi degli studenti. Provai a cercare Gabby, non ottenni risposta. Composi il numero di Katy e trovai la segreteria telefonica.
«Lasciate un messaggio breve, come questo», cinguettò allegro il nastro. Obbedii, ma non con la stessa allegria.